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Grand Hotel Budapest - The Grand Hotel Budapest
Anno: 2014
Regista: Wes Anderson;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA; Germania;
Data inserimento nel database: 17-04-2014


“Io la amo comunque questa grande vecchia rovina.” Perfino quando sogniamo a occhi aperti, riusciamo ad avere degli incubi. Le ansie visive si deformano, cambiano nome, appaiono meno pericolose della realtà, ma esistono e sono altrettanto orribili. Grand Hotel Budapest è il sogno lucido di Wes Anderson. Al suo interno egli intravede anche le camicie nere, delle SS trasformate in ZZ, una guerra alle porte. Esse per quanto drammatiche si mostrano grottesche. La pellicola si presenta come un flash back di un flash back. Si inizia nel 1985, si passa al 1968, e si racconta la vera storia ambientata nel 1932. Sono delle voci fuori campo a presentarci gli avvenimenti. Siamo in un estremo confine orientale, il luogo è indefinito, falso, come tutte le vicende del film. Il posto è il Grand Hotel Budapest, un allegorico sito, finto, illusorio, inventato, bugiardo, inattendibile, dentro il quale s’intreccia una storia altrettanto ingannevole e immaginaria, la lite su un’eredità di un’ottantaquattrenne Contessa. I figli reclamano le ricchezze e il bellissimo e l’inesistente dipinto Ragazzo con la mela di Johannes van Hoytl il giovane. A contendere il quadro c’è il concierge M Gustave. Uomo affascinante, svolge il lavoro con duplice precisione sia per l’accuratezza con cui gestisce il Grand Hotel, sia per le soddisfazioni extralavorative dedicate alle anziane ospiti. Ad aiutare il concierge, nel riconoscimento della sua quota ereditaria, c’è il giovane “garzoncello” il lobby boy Zero, un immigrato senza esperienza, senza studio e senza famiglia. Il seguito è la rappresentazione paradossale, strana, divertente, assurda di un mondo fantastico, decadente, fuori dalla realtà, rappresentato metaforicamente dal Grand Hotel Budapest: “È soprattutto discreto all’eccesso.” Il regista ci mostra l’usuale visione colorata della vita. La scenografia, gli arredamenti, i mobili, i vestiti, le pareti sono di una sovrabbondanza sproporzionata di colori primari, collocati ovunque, anzitutto dove mai avremmo immaginato. Se il mondo di Anderson è pitturato a dismisura, perché tutto è finzione, il linguaggio del regista è oltremodo pulito e chiaro. Costruisce tutto con geometria precisa e lineare; le inquadra dall’alto, dal basso, dal centro, e poi si diletta a distruggerle. Riprende, con campo medio e camera al centro le immobili, scene dell’ascensore. La parete di fondo dipinta di un rosso vivo e statici, solo con un ghigno, nello spazio angusto ci sono il belt boy e gli ospiti, immortalati senza sorriso come una vecchia fotografia d’epoca. Di simile formato c’è l’appariscente e isolata cabina telefonica gialla con strisce nere, situata in un desolato terreno coperto da un soffice sottile strato di neve limpidamente bianca. Come in Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore e Il treno per il Darjeeling i film di Wes Anderson sono pellicole d’azione e di viaggio. Dei viaggi particolari ma sempre edificanti, come la fuga d’amore in Moonrise Kingdom o la ricerca della madre in Il treno per il Darjeeling. Ma c’è anche un itinerario prestabilito della camera, utilizzata per accelerare le scene; inquadra in basso per far sbucare una scena in alto. Oppure un tappeto con le sembianze di un mandala, ripreso dall’alto con gente indaffarata, oppure una folle corsa in bob, oppure una fuga in moto, oppure una trasferta movimentato in un treno altrettanto finto, oppure l’assurda fuga dalla prigione. Tutte sequenze di azione ma stralunate e strampalate. Poi c’è la grande galleria di personaggi. Come in altri film c’è un andirivieni di attori famosi e importanti, sbucano in veloci sequenze, scandendo in questa maniera, lo stupore della visione. Nell’allucinante scontro a fuoco al sesto piano dell’hotel, tutti sparano contro tutti, senza nessuna ragione, senza un motivo apparente ma per reazione con agli spari. Una folle allegoria della guerra che stava assediando anche il Grand Hotel Budapest. Di un conflitto è vittima ugualmente il garzoncello Zero, obbligato a emigrare per le belligeranze nel suo paese. Egli era solo e fu accettato come allievo da M Gustave. Fra i due spunta una similitudine di segni a confermare il legame. Ralph Fiennes è M Gustave, recitato con una sottile attenzione alle varie sfaccettature umane di un personaggio inesistente. Amatore di donne anziane, vanitoso all’infinito: “Non so che tipo di crema ti hanno messo all’obitorio ma ne voglio un po’” parla a raffica, come speditamente si muove nelle sue inquadrature, e soprattutto recita interminabili poesie d’amore. M Gustave, come tutti gli altri concierge de La società delle chiavi incrociate, non sarebbe nulla senza al fianco un indefesso, preciso e zelante lobby boy. Quando costretto dagli eventi, M Gustave, ricorre all’aiuto della società segreta fra i concierge di hotel di lusso, essi accettano l’incombenza come un dovere. Chiamati al telefono per rispondere all’aiuto, sono ininterrottamente affaccendati in incombenze da lasciare momentaneamente al lobby boy, compresa una respirazione bocca a bocca. Due momenti divertenti, di grande emozione scenica. Nel primo, il lobby boy va in edicola a prendere i giornali da portare in hotel. Nella prima pagina c’è un grande titolo sulla guerra prossima. Il ragazzo la sbircia, si agita, s’innervosisce e inizia una corsa forsennata per consegnare le copie a M Gustave. Quando il lobby boy gli indica il quotidiano, scopriamo la ragione dell’inquietudine, un titolo più in piccolo, la morte della Contessa. Nella seconda, rubato dai due il falso Ragazzo con la mela, essi per nascondere il buco lasciato, mettono un quadro altrettanto inattendibile, una specie di Schiller con due lesbiche nude affannate a pomiciare. Inebriati dalle immagini, riusciamo a comprendere il sogno di Wes Anderson, un mondo al contrario, o occupato da altra cosa: “Non mi sono mai fidato di quel maggiordomo; è troppo onesto.”