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Un giorno devi andare
Anno: 2013
Regista: Giorgio Diritti;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 07-08-2013


“Anche la morte di un bambino?” Dopo aver diretto il bel film L’uomo che verrà, l’attesa per Giorgio Diritti era d’obbligo. Purtroppo il regista commette un grande errore, cade nella vanagloria, nella mancanza di umiltà, nell’immodestia, doti essenziali per un autore. Un giorno devi andare è una pellicola risolutamente noiosa. Si deve aggiungere un soggetto patetico, una sceneggiatura etilica e la mancanza di coraggio dell’esprimere le idee. Costruito con vanità perbenista, boria borghese e superficialità narra la storia di Augusta. Per dimenticare un passato sofferente, la troviamo su un’imbarcazione in Amazzonia con suor Franca. La suora tenta con grandi difficoltà di evangelizzare e di aiutare le popolazioni indio. Mentre la suora esegue il suo compito con dedizione, Augusta la osserva dubbiosa. L’inquadratura è dedicata a mostrare la depressione, la tristezza. A mano a mano con una pesante voce fuori campo comprendiamo le motivazioni degli ostacoli vissuti: “sono scappata dal dolore.” Pure l’atteggiamento con i bambini è spento, freddo, il regista c’è la presenta come una donna frigida incapace di amare. Nella prima parte Augusta osserva scettica e con noia i religiosi mentre svolgono umanamente – e anche con errori - un’attività religiosa. Lei si comporta come un borghese terzomondista, pronto a criticare, con lo stomaco pieno, i poveri perché non apprezzano il valore del digiuno. Biasima – lei ricca e con una bella casa - i disgraziati abitanti delle barrache inadeguati da afferrare la fortuna di stare in comunità. È talmente ripugnante da ritrovarsi abbandonata. Nella seconda parte cerca un confronto a Manaus. Su qualsiasi sito, tipo quelli mollo tutto e fugo all’estero, t’insegnano, che se uno ha dei problemi e disagi interiori, fuggire all’estero non risolve i dilemmi anzi li aggrava. Ma Augusta è inetta e gli indios di Manaus la abbandonano. Gli avvenimenti in Brasile sono alternati con delle scene in Italia della madre e della nonna, e un freudiano filo sulla presenza di un padre amato. Purtroppo il montaggio è pessimo, un filo spezzato di continuo e tutta la storia è un susseguirsi di noia. Ci sono delle scene di respiro, perché l’Amazzonia offre quest’opportunità. La barca scivola nel grande fiume, ripresa da lontano, e la scia sembra scrivere sull’acqua, mentre una saputella voce fuori campo recita frasi fatte sulla vita. La barca è l’esistenza umana. Il film invece si è arenato. A Manaus il regista cerca di dargli un tono sociale. Come la riunione della comunità sull’offerta del governo di lasciare la favela. La camera gira ma senza una meta. Da piccolo borghese ci presenta il luogo comune dei ricchi: com’è bello essere poveri. Il regista utilizza le scene ridicole del ballo. Come si divertono! Andrebbe bene se il tono fosse ironico, ma in realtà la puzza sotto al naso si sente benissimo. La scena del ballo è perfetta, tutti ballano bene, con ritmo ed educatamente: il livello culturale è quello di un video della Lambada. Poi per dargli un tocco ancora peggiore carrella sulle baracche della favela. Tradotto il pensiero del regista: come sono pittoresche queste schifose baracche, io non ci vivrei mai perché fa schifo ma voi siete una felice comunità, voi vi volete bene, come siete fortunati. E le confronta con le uguali e fredde case assegnate dal governo. Ma Diritti è mai stato in una favela? Se c’è stato, lui ha incontrato solo santi, come Papa Francesco recentemente a Rio de Janeiro. Girato come un documentario della BBC, noioso e senza anima, il regista ci aggiunge la zavorra di Jasmine Trinca e la sua recitazione antipatica, la quale aggiunge ripugnanza al personaggio di Augusta. Le tante scene di vita quotidiana della favela: le fogne a cielo aperto, le lamiere delle catapecchie, i particolari dei bambini sono un’altra pesantezza nel montaggio schizofrenico del film. La simbiosi finale fra le suore in Italia e la depressa Augusta fuggita – per il bene di tutti – solo in un’isola è incomprensibile. Non abbiamo una risposta l’angosciosa domanda: perché il marito l’ha abbandonata? Però ci sorge spontanea un’altra domanda: ma perché l’ha sposata?