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Il dittatore - The Dictator
Anno: 2012
Regista: Larry Charles;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 16-07-2012


“Tu sei l’ultimo grande dittatore.” Non ci sono più i tiranni di una volta. Ci sono, però delle pietre miliari, parte fondamentale storia della tirannia; ad esempio Il dittatore inizia con la dedica in memoria del defunto leader della corea del Nord. Nella centrifuga della pellicola sono raccolti i tanti lati folkloristici degli innumerevoli despoti attuali e passati. I tanti personaggi sono agitati e non mescolati generando un esuberante Sacha Baron Cohen nella sua variegata performance. Sacha Baron Cohen ritorna sempre con la regia di Larry Charles nella creazione di un personaggio sopra le righe, un permeabile amante delle esagerazioni fine a se stesse. Come era successo in Borat e Brüno il film ha una centralità omnicomprensiva nella sfaccettatura ironica e fisica dell’attore. Non serve un soggetto, una sceneggiatura è sufficiente una fisicità totalizzante. I suoi film appartengono alla generazione dei padri del cinema comico, non ci sono elucubrazioni filosofiche o peggio ancora politiche (malgrado la menata finale) il tutto avviene con la paziente attività di ricerca di gag e di battute. Il metafisico, la speculazione filosofica, la ricerca dell’assoluto non sono da cercare qui. Il dittatore Aladeen è un povero cristo, convinto orgogliosamente di essere un massacratore spietato. È invece umiliato scoprendo tutte le persone da lui condannate a morte vive e vegete – grazie alla complicità del carnefice - in un ristorante di New York. Cura una barba notevole, metafora fittizia della storia. Sono i peli sul mento la differenza fra un terrorista e un bravo ragazzo. I luoghi comuni appartengono alla nostra vita quotidiana, e basta il taglio della barba per trasformare lo spietato Aladeen nel bizzarro Efawadh. A volte ci lasciamo ingannare dalle apparenze, la scena del viaggio turistico in elicottero sopra New York è la vivace rivelazione di quanto accade se ci permettiamo di giudicare dalla esteriorità. Il film procede con un ritmo spezzato, con una presenza costante. La sceneggiatura è manchevole, ma l’essere superflua è un pregio. Operando a spezzoni, raggiungiamo un orgasmo comico in alcune scene, per poi declinare verso momenti di raggiunta pace dei sensi. La scena del parto è ragguardevole per arguzia. “Odio gli arabi, gli ebrei e quei frocetti blu di Avatar” le tante freddure provocano un umorismo politicamente scorretto a dimostrazione che non è necessario prendersi troppo sul serio per realizzare un buon film.