NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


Comedie de l'innocence
Anno: 2000
Regista: Raoul Ruiz;
Autore Recensione: Clarissa
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 11-03-2001


Comedie de l'innocence
Spazio Francia
Tempo 2000
Durata 95 minuti
Tipologia Dramma
Attori Isabelle Huppert, Jeanne Balibar, Charles Berling, Denis Podalydes, Nils Hugon
Realizzatore Raoul Ruiz

Camille compie gli anni e vuole andare al parco ad attendere la mamma. La mamma, presa dal papà e da sé, dalle discussioni da algida donna/intelletto e dalla casa tetragona, si dimentica dell’appuntamento col figlio, del figlio che attende una mamma. Camille allora si ricorda di essersi inventato un’altra madre, una donna/passione; la nomina sua vera madre e spinge la vecchia, indifferente e dimenticante, a farsi traghettare dall’altra. La mamma colpevole accondiscende e, conosciuta la donna investita del titolo di nuova madre, la accetta a casa propria per una convivenza a tre, in quella casa fredda e ordinata che stona con il caotico calore confuso e pieno della casa dell’altra.

Stupisce la tranquillità, tutta francese, di accettare così la nevrosi di un figlio, amplificata, rispecchiata raddoppiata o generata dall’altra nevrosi di una donna sconosciuta, enigmatica e carismatica. Stupisce che si accetti così senza problemi, se non di credere, almeno di pensare la possibilità che la nevrosi potrebbe essere la nostra, il nostro punto di vista sfocato e la nostra esistenza una menzogna raccontata meglio delle altre. Stupisce che la madre di Camille non cerchi mai di scacciare la madre nuova, né di farla ragionare, stupisce che ci si creda passibili di non avere ragione e di non volere neppure avere ragione degli altri. Per una volta una madre felice di perdersi nel labirinto (d’altronde la Huppert si chiama Arianne, e neanche troppo per caso la Balibar, con la sua faccetta da Alice meravigliata si chiama invece meravigliosamente Isabelle. Camille passerà il film a invocarle).

La scena primaria non si spiega, si vive e la nascita si metaforizza nel finale amniotico sulla barca della verità che fingerà di portare luce, ma è solo una luce soffusa di ombre sbilenche, un unico spazio teatrale come unicità impossibile del giudizio. Un film girato da Camille, specchio del cinema e del film stesso, svolgerà —avviluppandolo- l’enigma. Camille bambino diabolico in cerca di nuovi affetti e manipolatore di donne maternamente in attesa e anche lui in attesa ci mostra solo che esiste un gioco che sta prima del film e che noi potremmo non conoscere mai.

Un film non di madri ma di donne, donne incapaci di amare ma amate e amanti. Gli uomini sono solo padri assenti, angoli di edipi non caricati di significato, fratelli psicanalisti inetti capaci solo di maggior fraintendimento.

L’uomo è Camille che cerca di realizzare il suo Edipo radicalizzandolo nella gelosia per una madre altra, o spazzandolo via nella scelta non più esclusiva di una madre nuova. Un Edipo ampliato a innamoramento scelto e non prestabilito, libero arbitrio della libertà di scegliersi la madre che ci piace di più.

Camille, piccolo Proust che non accetta il dato, il dono della madre, provoca con le sue idiosincrasie e i suoi sguardi vuoti un movimento quasi lesbico di avvicinamento tra donne con lo stesso ruolo (come non soccombere al fascino di una smarrita e stralunata Balibar, folletto figlia e madre, quasi figlia anche lei della madre vera o sua amante, di una bellezza che splende di intelligenza, se crediamo che il ragionamento si trasmetta geneticamente dal vero padre nella vita, filosofo politico e se crediamo ai suoi veritieri impegni per Sanspapier in pieno stile beartiano) delle madri affascinate l’una dall’altra per tramite, o magari malgrado, Camille stesso, burattinaio inconsapevole ma colpevole.

Madre triplicata nella giovane babysitter che osserva affascinata e non vuole rompere l’incanto, complice di Camille e amante della logica e del fratello della madre, l’unica che probabilmente potrebbe svelarci la verità ma che non potendolo fare in versi teoremici non si scomoda a farlo (che sia lei la vera psicanalista e che dunque non possa darci le risposte ma solo metterci davanti ai nostri rimossi e alle nostre nevrosi, nudi con la nostra famiglia, privi di risposte preconfezionate nel setting?).

Il romanzo da cui è tratto il film, scritto da uno psicanalista, null’altro è che la genesi di un Dongiovanni (non Casanova che non vuole nulla al di fuori di sé e si riflette in tutte le sue conquiste, ma Don Giovanni che vuole tutto e che non lo trova in nessuno, che si appassiona al tutto suggerito dalle donne e viene perseguitato da fantasmi di padri commendatori morti e statuari), del bambino che noi siamo, il bambino che vuole avere tutto e subito e che si batte per affermare la sua realtà. Un bambino le cui espressioni rattenute riflettono la malinconia eternale del suo protipo Don Giovanni, dissoluto punito, che nelle sue infinite trasformazioni si trasfigurerà facendo spola tra il diario del seduttore e la dannazione, di rimbaudiana memoria, di un Don Giovanni all’inferno (senza maci(ste)).

E la realtà, per Bontempelli che ha scritto Il figlio di due madri, cosi come per Ruiz che ha girato La Commedia dell’Innocenza, si mostra come il disturbante supremo, nulla è più inquietante della realtà - magica magari, come nel realismo magico che espone e dispone Bontempelli- ed è proprio la banalità del male, magari innocentemente ricercato, che atterisce più della fantasia distorta e ritorta. E non si può accusare il doppio di tutte le colpe anche se è il doppio che in-genera il fraintendimento e riesce a privarci del fondamento, perché il doppio esiste da prima dell’inizio.

Questa esposizione del Don Giovanni-Proust in un percorso ruiziano a ritroso -Ruiz aveva appena girato La Recherche a partire dalla vecchia rimembrante alla quale manca l’infanzia non ancora diabolica lì, ma qui già criminale, un’infanzia consumata nell’uccisione simbolica della madre per non essere condannati a ricercala uguale per tutta la vita- gira attorno alla domanda di Camille, Dov’eri mamma quando io sono nato?, la domanda impossibile sulla nascita che getta nel mondo e che si lega alla morte di chi ci ha generato, alla morte delle nostre credenze dogmatiche sulla realtà che prepara la visione e permette di attuare la volontà di credere alla commedia della vita, anche a costo di venirne poi puniti. Chissà che poi non se ne ricavi un certo piacere.