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Cecil B. Demented - A morte Hollywood
Anno: 2001
Regista: John Waters;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 05-07-2001


Cecil B. Demented

 

regia e sceneggiatura
John Waters

fotografia
Robert M. Stevens

montaggio
Jeffrey Wolf

musica
Moby

suono
Rick Angelella

scenografie
Rob Simons, Barbara Haberecht

produttore esecutivo
Fred Bernstein, Joseph Caracciolo

provenienza: USA
distribuzione italiana: BiM
anno: 2000

"Ore 18,50. A morte le major di Hollywood"


interpreti:
Melanie GRiffith .... Honey Whitlock
Stephen Dorff ....... Cecil B. Demented
Alicia Witt ....... Cherish
Adrian Grenier .... Lyle
Larry Gilliard jr. .... Lewis
Maggie Gyllenhaal .... Raven
Jack Noseworthy .... Rodney
Mink Stole ....... Mrs. Mallory
Ricki Lake ....... Libby
Patricia Hearst .... Madre di Fidget
Michael Shannon .... Petie
Eric M. Barrie .... Fidget
Zenzele Uzoma .... Chardonnay
Erika Lynn .... Pam
Harriet Dodge .... Dinah

 

 

Dove se non Baltimora, la cornice di ogni scorribanda di Waters? La capitale più impregnata di provincialismo che sopporta i primi strali di una scatenata Melanie Griffith, riportata al "something wild" che ce l’aveva fatta conoscere da un John Waters, deciso a lasciare dietro di sé solo rovine fumanti di cinema-spazzatura triturata dalle sue "visioni".
Il gusto del regista, che mantiene i suoi inconfondibili vezzi (il mascherino a tendina, gli amati colori pastello così kitsch, l’improbabile bric à brac delle scenografie), oscilla tra le battute pesanti e demenziali come l’assurda curiosità relativa agli esercizi sessuali presidenziali ("Pat Nixon si è fatta sbatacchiare in questa stanza?") e le raffinatissime citazioni filmiche a catena, a partire dalla cadenza dei minuti dell’azione del rapimento (Rapina a mano armata o la pletora di noir in cui il meccanismo di precisione è la caratteristica principale?) fino a culminare nella sgangherata parodia di Forrest Gump e della location classica per un finale thriller, il solito drive in.




A questo proposito si potrebbe mettere a confronto Splendor di Araki, altrettanto indipendente e caustico: il giovane regista appare meno disincantato nella frequentazione dei generi, si direbbe che ciò che differenzia la cura del prodotto falsamente patinato di Araki dal più raffazzonato attacco al perbenismo di Waters sia la formazione politica legata all’epoca. La doom generation non è caricata di riferimenti a tutti i movimenti degli anni 70 e ne sostituisce la naturale causticità con la saturazione infastidita e sedotta di richiami, soprattutto iconici, a elementi iperformalizzati dal decennio successivo, quello di riferimento per loro: propone dunque accentuando le dosi proprio ciò di cui vuole liberarsi, rendendolo prodotto gradevole e al contempo nauseante (l’uso dei colori pastello – gli stessi di Waters – diventa occasione per insinuare in essi l’attrazione glamour e la malattia venefica, mentre per il regista di Polyester essi sono il logico, palese compendio delle leziose ipocrisie della società di Baltimora, la vera Babylon dei rasta), mentre il processo di Waters è inverso: spara addosso allo spettatore le schifezze e le nobilita con il suo sarcasmo impegnato; Waters è indignato del pessimo prodotto delle major, Araki comprende di avere immagini dirompenti che scardinano l’equilibrio narcotizzato di Hollywood, ma senza la precisione degli obiettivi, chiara nel disegno di Waters. Però la sequenza del drive in, affondando le radici in un periodo ancora precedente, evidenzia una differenza ancora più marcata: quanto Waters è regista immerso nella tradizione del demenziale e dirige masse che si scontrano, procedendo fatalmente verso un finale grandguignolesco, Araki agisce intimisticamente sui singoli personaggi, dimostrando che anche la lettura della tradizione filmica, di cui entrambi fanno interpretazioni sempre personalissime, è condizionata dall’approccio politico: il cinquantenne individua ancora gruppi, masse, il trentenne riconosce solo individui, ciascuno con turbe e malesseri che custodisce gelosamente.


Gli strali di Waters non colpiscono solo il cinema, ma si estendono alla società e alla cellula terroristica, con la quale si è portati a solidarizzare come i molti spettatori coinvolti, perché più simpatica di quelle allarmanti organizzazioni di famiglie che la circondano, ma inchiodata al suo fanatismo personalistico sbeffeggiato corrosivamente che trascende dal cinema e si trasferisce alla critica politica per tornare a focalizzarsi sui miti di cinefilia estrema: il cinema come pretesto per colpire una visione del mondo apparentemente anacronistica, ma scelta nella sua evidente artificialità datata (i riferimenti a Nixon e alla vicenda di Patricia Hearst, pure nel cast, non sono gli unici che fanno pensare agli anni 70, basti pensare alla splendida colonna sonora che spazia dal soul al rap a Liberace, toccando tutte le corde del punk, nascosto in quasi ogni piega delle sequenze che seguono i luoghi delle azioni della banda vestita con evidente ispirazione ai movimenti libertari) per mostrare addentellati comuni alla realtà attuale, come a voler significare che non si riescono a soffocare gli anni settanta, rispuntano di nuovo fuori, come le maratone di kung fu per quel "pubblico di nicchia!", come viene arringato. E risulta coinvolgente la solidarietà dei cinefili che reagiscono e si scontrano con le associazioni moraliste, aggiungendo un tassello all’evidente campionario di emarginati che compongono la resistenza allo sconcio dell’immaginario ("Non ci sono limiti al cinema underground" e Waters ci offre immagini composite come quella qui a fianco, degne di cinema espanso tipicamente seventies come le proiezioni del giornaliero nel magazzino ipercolorato che funge da covo): oltre ai componenti il commando ci sono gli spettatori cinefili e i masturbatori dei film a luci rosse, tutti contro le scempiaggini hollywoodiane.


Si salva soltanto la carrellata di idoli dei giovani terroristi, ciascuno con il nome di un grande regista tatuato sul braccio (Otto Preminger sull'avambraccio del regista-leader, e poi gli esteti della anarchia Sam Peckimpah e Sam Fuller, le icone gay Kenneth Anger, Fassbinder, Almodovar – ciascuno a modo suo maestro della ricerca sperimentale di linguaggi innovativi quanto provocatori – e poi il riferimento afroamericano Spike Lee), figure evidentemente amate eppure non si avverte alcun incensamento: sono anche personaggi politicamente e poeticamente significativi. Rivoluzionari, che rispondono all’esigenza di recuperare l’immaginario distrutto dalle majors: "Ci avete scippato il sesso e rubato la violenza". Infatti il festival immaginario è intitolato a Pasolini, l’intellettuale organico, il teorico del testo filmico e il regista gay. Ma oltre a questi omaggi anche un po’ blasfemi, il resto rimane pervaso da un’aria di globale scardinamento corrosivo: anche gli scambi di battute con la diva non ancora catturata alla causa non sono rubricabili solo sotto categorie quali il compendio del cinema odiato ("Il tutto esaurito per i Flintstones, no!"), perché non si limita ai facili bersagli come Patch Adams o l’immaginario Disney; o la stigmatizxzazione del radicalismo asfittico nel programmatico rifiuto dei mezzi ("Non ci sono regole da noi e i miracoli della tecnica sono esercizi di stile"), perché in fondo coinvolge la critica al linguaggio menzognero che per Waters è il fulcro della sua proposta di cinema. In quelle battute ben nascosto c’è l’orgoglio di avere sempre rappresentato l’autentico orrore del mondo reale con mezzi sarcastici e sembra mettere in scena l’ambiguità (richiesta di liberalizzazione di costumi e contemporaneo voto di castità celluloidale) quasi a volerci sguazzare, farne parte, condividere le contraddizioni per farne emergere altre (invocare proprio Andy Warhol come profeta contro il profitto; chiamare Fassbinder l’etero che si vergogna di esserlo, ribaltando stereotipi) e arrivare alla fine alla catarsi di poter dire: "Il pubblico non ha bisogno di questa spazzatura". Inscenando la spettacolare sequenza dei capelli in fiamme e della soddisfatta consapevolezza con cui la diva si avvia al cellulare.



Alla domanda iniziale su quali location sponsorizzate siano più adatte per ospitare il nuovo round di Waters contro il cinema edulcorato per famiglie e il remake svuotato degli elementi dirompenti dell’originale si può rispondere con un’altra domanda retorica: dove se non in un’altra città dotata di film commission orientata a perpetuare vuote carinerie giovanilistiche alla Muccino (corrispondenti alle melensaggini di Some Kind of Happiness, l'ultimo film della diva prima del riscatto), altrettanto ammantata di provincialismo alla quale una caserma azienda detta tutte le scelte di sviluppo da un secolo a questa parte nel nordovest d’Italia?


"Potere al popolo che si oppone alla cinematografia di merda".