Fino
all’ultimo respiro. Jean-Luc Godard. 1960. FRANCIA.
Attori: Jean-Paul Belmondo,
Jean Seberg, Daniel Boulanger, Jean-Pierre Melville, Van Doude
Durata: 87’
Titolo
originale: A bout de souffle
Parigi. Dopo tutto, sono un fesso… Il ladro d’automobili Michel Poiccard,
all’ennesimo furto, si vede obbligato ad uccidere un poliziotto. La polizia
però riesce ad identificarlo e la notizia è pubblicata su tutti i giornali. In
giro per la capitale, Michel va da Antonio, un suo collega dal quale attende parecchi soldi e poi, in strada, Michel incontra
Patrizia, una ventenne americana che vorrebbe diventare giornalista, e risalda
una vecchia relazione. Dopo aver trascorso un paio di giorni nella sua stanza
d’albergo, ed aver cercato di contattare invano l’amico Antonio, Michel è
rintracciato dalla polizia la quale pone alcune domande a Patrizia. La coppia
si rifugia a casa di una spogliarellista e qui Patrizia decide di denunciare
Michel alla polizia per liberarsi dell’amore che per lui prova. Il giorno che
Antonio lo raggiunge con il denaro che Michel aspettava, sopraggiunge anche la
polizia che uccide Michel in fuga.
Anarchico esordio alla regia per
uno dei critici dei Cahiers du cinéma, autori del movimento di protesta
intellettuale che firmò la nuova ondata di cineasti in grado di cambiare le
sorti del cinema mondiale: Jean-Luc Godard. Sebbene vi sia uno stile
assolutamente originale e moderno (soprattutto nella sua idea di controcinema), è bene comunque spulciare
i titoli di coda per constatare che dietro questo esordio di successo
(anticipato da una serie di cortometraggi) ci sono anche altri componenti della
Nouvelle Vague come i registi
Françoise Truffaut (autore della sceneggiatura) e Claude Chabrol (supervisore).
Ancora di più dei suoi colleghi però, Godard s’inserisce nel panorama
cinematografico mondiale con la stessa prepotenza con la quale il regista Orson
Welles fece ingresso con il suo Quarto
potere (1941). Dotato di un montaggio a singhiozzo (innovato ed esibito,
mostrato esplicitamente nella sua funzione come elemento principale del cinema),
di una radicalità e volontà superiore alla maggior parte delle opere prodotte
durante quegli anni (scavalcamenti di campo e decostruzione della maggior parte
delle regole narrative) il film ha notevoli spunti come le parlate in camera
(antinarrative e che ammiccano direttamente al pubblico), le autocitazioni (la
ragazza che in strada ferma Belmondo con la rivista per la quale scriveva il
regista), la ripetizione delle medesime sequenze (il piano sequenza d’ingresso
di Belmondo nel luogo dove lavora Antonio, ripetuto poi nell’ingresso
dell’ispettore e quello della Seberg nella redazione, anche questo ripetuto
dall’ispettore), la recitazione in strada con la gente che guarda in macchina, e
una serie di brevi e concise battute che allargano il piano dei dialoghi con un
sapore sperimentale che per certi versi (soprattutto nella lunga parte in cui
la coppia è in camera da letto) ricordano i dialoghi del film Ingenui e perversi (1960) di Andrzej
Wajda. L’amore per il cinema americano, per una parte del cinema americano, è
evidente sin dal personaggio di Michel, duro fino all’ultimo respiro, un
ribelle senza causa [i] che si atteggia a mito di
se stesso, ricalcando la figura di Humphrey Bogart, ed arricchendola di boria e
tic ripetitivi. Per la sua passione per i film popolari e di serie B, Godard
dedicò questa pellicola (ma solo nella versione francese) ad una casa di
produzione minore degli anni cinquanta, la Monogram Picture
[ii]. Non
è quindi solo al cinema americano che il regista volge lo sguardo, quanto anche
al cinema di casa, al genere polar
specialmente, che proprio grazie a questa pellicola ottenne una forte spinta di
rinnovamento sia a livello stilistico che narrativo, abbandonando cioè quei
caratteri ormai consolidati nell’immaginario del genere, poliziotti e gangster.
Tra i vari amici che passano per questo film con piccole comparsate, i registi
Melville (che interpreta lo scrittore Parvulesco), Philippe de Broca e José
Bénazéraf, ma anche lo stesso Godard che interpreta il passante che denuncia
Michel alla guida dell’ennesima auto rubata. Il nome falso che Michel utilizza
per il passaporto è quello di Laszlo Kovàcs, cioè quello di un altro
personaggio interpretato dallo sesso Belmondo in A doppia mandata (1959) di Claude Chabrol, ma è anche, per
coincidenza, il nome del direttore della fotografia che dipinse i colori di Easy rider (1969) di Dennis Hopper. L’altro
grande esordio della Nouvelle Vague, Hiroshima
mon amour (1959) di Alain Resnais, è citato nel momento in cui viene
inquadrato un cinema che ne espone i manifesti. Fino all’ultimo respiro rimane indubbiamente un gesto d’amore,
l’omicidio, per il cinema. Il film ha un remake ufficiale: All’ultimo respiro (1983) di Jim McBride. Il 10 maggio 1991, a Madrid, una commissione
composta fra l’altro da Federico Fellini, Manoel de Oliveira, Francesco Rosi,
Krisztof Zanussi, e presieduta da Ricahrd Lester, annoverò il film di Godard
tra le più importanti trenta opere del cinema europeo.
Bucci Mario
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