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Bread and Roses
Anno: 2000
Regista: Ken Loach;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: GB;
Data inserimento nel database: 30-12-2000


Bread and Roses

 

Bread and Roses


regia
Ken Loach

sceneggiatura
Paul Laverty

fotografia
Barry Ackroyd

montaggio
Jonathan Morris

scenografia
Martin Johnson

costumi
Michelle Michel

musica originale
George Fenton

suono
Ray Beckett

produzione
Tornalsol, Parallax, Road Movies, Alta, BSKYB

distribuzione
BiM

durata
112'





interpreti: Pilar Padilla (Maya) Adrien Brody (Sam) Elpidia Carrillo (Rosa) Jack McGee (Bert) Monica Rivas (Simona) Frank Davila (Luis) Lillian Hurst (Anna) Mayron Payes (Ben) Maria Orellana (Berta) Melody Garrett (Cynthia) Gigi Jackman (Dolores) Beverly Reynolds (Ella), Eloy Mendez (Juan), Elena Antonenko (Marina), Olga Gorelick (Olga), Jesus Perez (Oscar), Alonso Chavez (Ruben), Estela Maeda (Teresa), George Lopez (Perez), Jose Jimenez (Freddy), Sherman Augustus (Ernest), Julian Orea (primo coyote), Javier Torres (secondo coyote), Roscio Saenz (Emma), Blake Clark (Sig.Griffin), Pepe Serna (ristoratore), Tony Rizzoli (responsabile del personale), Tom Gilroy (dirigente sindacale), Neal Baer (dottore), David Steinberg (primo avvocato), Ted Baer (secondo avvocato), Terry Anzur (reporter), Greg Montgomery (guardia giurata), Clement Blake (custode della stazione di servizio), Tom Michael Bailey (camionista), Richard Bravo (funzionario della I.N.S.).

 

 

Come al solito attento ai fenomeni sociali in atto Loach volge lo sguardo ai pachucos che vivono a ridosso del vergognoso muro di Tijuana e propone anche uno dei primi esempi di spanglish in salsa ranchera, vivacizzando una festa di janitors con le voci quasi rap di alcuni nipotini di mariachis, i salseros, che usano una lingua callejera per descrivere i rapporti di sudditanza imposti dai padroni ai latinos, che forse grazie alla loro impermeabilità alla cultura wasp contenderanno il potere ai gringos riprendendosi la terra rubata al Mexico dagli Usa nell’Ottocento; per ora hanno cominciato a difendere la loro lingua e le loro comunità, poi a uscire dall’anonimato e come ci racconta il film a strappare qualche diritto sindacale. Quelle canzoni sono il perno attorno al quale ruota il racconto della vertenza descritta nel film, rappresentando l’unico momento di pausa nell’incalzare degli eventi, collocandosi tra la lunga preparazione della decisione di dare il via alla lotta sindacale e l’irrevocabile collocazione dall’una o dall’altra parte. L’originalità del film sta nel fatto che non viene meno alla scelta di campo, ma comprende anche le ragioni di chi non lotta; forse perché descrive una vertenza finita incredibilmente con una vittoria: sarebbe stato più lacerante riconoscere ai traditori il loro diritto a esserlo nel caso i padroni avessero vinto.


Ovviamente la forma di apologo, oltre a romanzare e a risultare incredibile per l’esito (ma è una storia vera di poco abituale sconfitta dell’ingiustizia globalizzata), assume alcune coloriture retoriche tipiche della maniera del regista britannico: la sua caratteristica è di essere talvolta efficace e coinvolgente e talaltra scontato. In questo film i momenti alternano introduzioni di argomenti in cascata, che promettono spettacolari rivalse e caratteri sfaccettati, a macchiette stereotipate e sovrabbondanza di temi pletorici. Si coglie qui e là il bisogno di accumulare tutte le tematiche correlate all’argomento principale, introdotte con mestiere, quasi che lo studente modello, ma povero janitor perseguito, o il diabetico privo di assistenza fossero irrinunciabili, ridotti dalla sceneggiatura a fare forzatamente corona ai protagonisti con i loro pietosi casi e fornire alibi e pretesti alle due protagoniste; il risultato non è un’opera corale perché certe figure solo accennate non entrano nell’epopea e distraggono soltanto dal centro del plot, se non quando si rimarcano certi momenti più intensi, che tuttavia figurativamente possiedono una carica di gioiosa sovversione degna dei murales storici di Orozco, Rivera, Siqueiros, riferimenti evidenti data la loro caratteristica di affastellamento di situazioni didattiche che nel film diventano quei momenti in cui si storna l’attenzione dalle due sorelle messicane per appuntarla sui personaggi di contorno.


La rivalsa iniziale di Maya che con astuzia si salva dallo stupro è preludio della possibilità di vittoria nella lotta perseguita caparbiamente dallo spirito ribelle, non ancora piegato e si rinvengono di nuovo due situazioni simili ricorrenti all’inizio come alla fine del film: le due sorelle sono divise dai vetri di un furgone, nel prologo è quello degli scafisti che non rilasciano la clandestina, nell’epilogo è quello della polizia che la riporta al confine: storie di ordinario sopruso, legalizzato e illegale, ma uguali.
Rosa, la sorella che svela gli arcani – ma soprattutto non è eroe interamente positivo né totalmente negativo, nonostante la spiata – e che riassume in sé tutto il dramma dell’emigrante, alla fine risulta non solo credibile, ma umana e ancora in grado di combattere, pur tra mille paure, soggetta a infiniti compromessi, non pura dura e immacolata, eppure determinata e autentico soggetto che incarna il più diffuso atteggiamento dei lavoratori: ricattabili, impegnati a salvarsi individualmente in una condizione di globale attacco liberista (che significa oscurantismo fascista), per nulla convinti dell’effettivo impegno del sindacato, tuttavia talvolta pronti a impuntature d’orgoglio o rigurgiti, per lo più individuali ("Rosa, del movimento Giustizia per Rosa"), di odio di classe che trovano espressione negli spazi lasciati liberi dalla chiusura della globalizzazione. Autentica quanto Maya, la sorella determinata sobillatrice e pura, allo stesso modo in cui Rosa è resa dubbiosa dall’esperienza che sicuramente le ha tolto la purezza; è difficile definire servo o ruffiano un compagno di lavoro, magari crumiro o in carriera, Loach questo ci spiega dopo aver descritto le lotte adamantine del proletariato di mezzo mondo: è ingiusto giudicare un compagno mancato, addirittura una spia. Nessuno può capire cosa si nasconde dietro le scelte di chi non se la sente di rinunciare a quel niente che ha strappato: e allora risultano corrette sia le odiose parole dell’emigrata russa, che difende con i denti il pugno di mosche che crede di aver conquistato boicottando l’assemblea, sia di contro la spontanea, quasi incredula, consapevolezza del giovane salvadoregno: "Abbiamo sempre più forza di quella che pensiamo di avere"; fotografano entrambe la realtà (non solo quella meno protetta dei janitors, ma anche quella dei metalmeccanici in lotta per l’integrativo Fiat a Torino come a Pratola, o quelli inglesi di Vauxhall-Luton, licenziati da Opel-GM) tanto la solidarietà di Teresa e la cocciutaggine di Berta, licenziata per non aver voluto vendere i compagni, quanto le aspirazioni di Ruben, che avrebbe i numeri per studiare e quindi non se la sente di gettare tutto alle ortiche per una lotta per lui inopportuna, benché la simpatia di Loach vada a Maya, che azzecca la battuta giusta per inchiodare ciascuno alla propria dignità: "A scuola potrei andarci anch’io un giorno, ma non al prezzo di tutto questo".




Altro momento emblematico di questa altalena tra gli istanti di cinema militante in bilico sul baratro della retorica risaputa e la sofferta interrogazione del proprio ruolo è il rapporto col sindacato: Brody ha la faccia giusta per rendere plausibile l’intrusione sfrontata sul terrazzo dell’amministratore del grattacielo, ma il suo costante sorrisetto ironico lo rende inadatto per interpretare contemporaneamente il ruolo dell’intellettuale travagliato dal proprio essere garantito a fronte della facilità (flessibilità?) di licenziamento a cui sono sottomessi i janitors ed è di contro commovente come Teresa interpreta la sua disperazione per aver bollato con un minuto di ritardo. Il piglio di Rosa è molto più convincente quando lo invita a "non dire mai ‘noi’. Quando mai hai fatto il pulitore, tu e il tuo sindacato di intellettuali bianchi?". Attenzione, non è una domanda peregrina: io stesso avrei voluto rivolgerla (a parte la chiosa inopportuna sul livello di cultura) più volte a Giorgio Airaudo, responsabile fiom di Collegno (fim, uilm e fismic non li considero nemmeno sindacati), se avesse fatto qualche comparsata in fabbrica: non mi è stata data l’occasione di chiedergli: "Tu cosa rischi? Quanto prendi di stipendio?". Invece Loach ha il pregio di non risparmiare nulla, nemmeno quelle retoriche domande e montandole poi in un frangente altamente drammatico: il licenziamento di Berta causato dalla disattenzione del sindacalista. Un aspetto tutt’altro che marginale nella creazione del personaggio di Sam capace di resistere alle pressioni pompieristiche provenienti dall’interno della centrale sindacale, timorosa di perdere gli appoggi politici, denunciati con una delle solite battute di Loach, facilmente rintuzzabili dai destinatari come velleitarie.
Si prosegue così tra guizzi poetici (la toccante confessione al cospetto di un ferro da stiro) e cadute strategiche all’inseguimento della memorabile sequenza (il ricevimento interrotto, dimostrazione priva di incisività), tra situazioni da comica (il primo incontro con il sindacalista braccato) o da commedia edificante (in senso buono: un esempio è la sequenza in cui Ella, la collega afroamericana insegna a ballare con il battitappeto) ed emblematiche inquadrature, come quella con lo sbirro nero inflessibile all’ingresso del grattacielo – che crea un cortocircuito tra la sua figura e quella sbarazzina chicana che riceve subito la solidarietà di due giovani che per un momento vanno a formare un triangolo i cui spigoli sono poli di tensione – o le ripetute inquadrature che vedono il capetto schierato con i poliziotti da un lato della stanza in aperta ostilità con le sue vittime schierate dall’altro lato trepidanti, ribadisce anche visivamente il conflitto. Fino alla fiumana, ripresa come sempre nel cinema di Loach con un potente teleobiettivo che incolla e appiattisce rendendo uniforme la massa, compatta come quella di Tina Modotti evidentemente presente nell’immaginario del regista, che la adotta per esplicitare il motivo del titolo, momento di rivelazione liturgica del suo cinema: "Si avranno le rose quando vi ribellerete e vi organizzerete".

   

Tutta la pellicola è percorsa da una sorta di omaggio alla capacità delle genti latino americane di ribellarsi: non solo le immagini di Tina Modotti o dei muralistas, e pure le loro aggiornate versioni televisive: le botte della polizia filmate da reti indipendenti (degne di indymedia e corredate da slogan imperituri come "no pasaran", più tradizionalmente scritti sui muri) trovano spazio sul piccolo schermo che trasmette ai janitors la memoria storica delle lotte precedenti, ma anche i miti rivoluzionari, che il regista ha voluto risuscitare con una buona trovata attraverso la quale mette in carcere niente meno che Zapata, Sandino e Villa, tre janitors giovanissimi, antagonisti e pronti con quella rivendicazione di tradizioni importanti a prendersi gioco dell’ignoranza del potere declinando generalità che sono identità valide per uscire dall’anonimato delle uniformi dell’impresa di pulizie (che li rende invisibili), ma soprattutto a lanciare un segnale di quale sia la corretta prassi di lotta individuata dalla base dei lavoratori di Los Angeles. Quando diventerà anche la piattaforma dei janitors europei?

Zapata, Sandino, Villa