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Manhunter - Frammenti di un omicidio
Anno: 1986
Regista: Michael Mann;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 04-12-2003


La grande guerra

Manhunter – Frammenti di un omicidio. Michael Mann. 1986. USA.

Attori: William L. Petersen, Kim Greist, Joan Allen, Brian Cox, Dennis Farina

Durata: 118'

Titolo originale: Manhunter

 

 

L’agente Will Graham è richiamato in servizio per aiutare la polizia a rintracciare un pericoloso assassino che ha già massacrato due famiglie. Allontanatosi dalla polizia a causa di disturbi psichici che lo avevano costretto a cure psichiatriche, dopo l’arresto di un altrettante pericoloso assassino, il difficile dottor Lector, l’agente Graham decide di accettare il caso, promettendo alla moglie di non lasciarsi questa volta coinvolgere. Il suo ruolo di criminologo però, è proprio quello di sostituirsi al maniaco e pensare con la sua testa per prevenire il prossimo omicidio, presumibilmente calcolabile entro l’imminente luna piena. Incontrando le prime difficoltà nell’indagine, non capendo perché ad esempio il maniaco rompa gli specchi per poi infilarne alcuni frammenti nelle orbite delle vittime, Graham decide di rivolgersi all’aiuto proprio del dottor Lector. Sarà costui, attraverso difficili intrighi psicologici a svelare la strada migliore a Graham per identificarsi con il maniaco, soprannominato intanto dalla stampa come Dente di fata, e comprenderne quindi oltre la personalità, la persona stessa. Nel frattempo il folle uccide un giornalista usato dalla polizia per tirargli una trappola, e sequestra una ragazza cieca, della quale si era innamorato, dopo che vede questa tornare a casa con un altro uomo. Grazie a dei filmati una volta in possesso delle due famiglie massacrate, Graham individua la strada che lo porterà alla soluzione del caso.

Tratto dal best seller di Thomas Harris Red Dragon (con il quale titolo è anche conosciuto questo film) tradotto in italiano con Il delitto della terza luna, il lavoro di Michael Mann è un piccolo e per tanto tempo sottovalutato capolavoro di genere. Oltre ad essere il primo film ad introdurre la figura del dottor Lector, poi stranamente trasformato in Lecter negli altri episodi, quali Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, Hannibal (2001) di Ridley Scott ed infine proprio il remake di questo, Red dragon (2002), il film ha il merito di mettere quasi sullo stesso piano cacciatore e maniaco (in questo sta la giusta scelta del titolo, senza sapere a chi si riferisca veramente) scegliendo di macchiare entrambi i personaggi di forza e paura, amore e debolezza. Le musiche di Michel Rubini sono strepitose e ricordano quelle del miglior Carpenter, soprattutto nella prima parte del film quando la tensione è altissima, e terminano con la splendida In a gadda da vida degli Iron butterfly, scelta dall’assassino per tutta l’ultima importante sequenza. William Petersen, ha forse il viso giusto del detective Graham, ma sono le scelte di Tom Noonan nella parte di Dente di fata e quella di Brian Cox per il dottor Lector ad essere veramente azzeccate. Il lavoro, oltre che a rispettare perfettamente un genere come quello impostato sui serial killer, ha anche il merito di uscire dai soliti schemi ed introdurre analisi sulla potenziale malvagità umana giustificata attraverso quella divina (Dio è citato solo com’esempio negativo specie quando sul finale Graham spiega al suo amico quello che gli ha detto Lector sul folle “Si sente simile a Dio, ed ha bisogno di simulare che qualcuno lo desideri, e più simula d’essere voluto, più tutto ciò diventa reale”) ma soprattutto sul rapporto tra immagine e riflesso dell’immagine (necessario anche al contesto che in questo caso vuole il criminologo uguale al maniaco) dove specchi ed immagini si riflettono, e permettono di guardarsi ed essere guardati, cosicché il bisogno di vedere ed essere visti diventa disturbante e maleficamente divino. La realtà è sublimata attraverso l’occhio della cinepresa che riprende le famiglie nei loro momenti di quotidiana felicità, e trasmette a Dollarhyde Francis, questo il vero nome di Dente di fata, lo stesso calore che gli trasmette la ragazza cieca al suo fianco, quasi fossero Mark Lewis ed Elen de L’occhio che uccide (1960) di Michael Powell. La mai melensa parte che vede nascere un tenero sentimento tra il killer e la cieca, è fortemente emotiva e sempre tesa, e la cinepresa sceglie di passare in soggettiva, di stringere sui volti, ed infine allontanarsi quando all’alba lui crede di aver trovato l’amore, come se gli stesse concedendo un attimo di normale intimità. La scelta di non usare immagini cruente, ma di lasciare che sia Graham a descrivere le scene del delitto, è un ulteriore messaggio di stile da parte del regista. Decisamente un capolavoro, e che in questo quindi non ha nulla a che fare con il suo remake.

 

 

Bucci Mario

        [email protected]