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Le ceneri del tempoLe ceneri del tempo
il cinema di Wong Kar Wai

(Piombino, TraccEdizioni, 1997, L.10.000)

Chi già conosce l'autore di Hong Kong e lo ama, può trovare questa pubblicazione nelle librerie Feltrinelli, in qualche libreria specializzata, oppure può richiederla agli indirizzi di Cinemah che trovate in fondo alla pagina (verranno aggiunte le spese di spedizione). Se invece non conoscete ancora il regista, di cui è in questi giorni nelle sale l'ultimo e premiato Happy Together, questo agile volume costituisce una valida occasione di avvicinamento, nonché un importante ed essenziale lavoro di documentazione: sono infatti presenti una ricca bibliografia, una filmografia commentata e la videografia, oltre alla raccolta di link già curata da noi.

Pur non essendo una produzione diretta della rivista Cinemah, una parte consistente della redazione vi ha contribuito, anche a livello progettuale. Expanded Cinemah è dunque lieta di ospitare l'introduzione del lavoro da parte di uno degli ideatori.


Con gli occhi dell'occidente: il caso wong kar wai

Chi è Wong Kar Wai? Un piccolo maestro del nuovo millennio? Un astuto regista di genere che ha preferito indossare i panni dell'Autore? Un post-cinefilo (non ha forse dichiarato che potrebbe vivere anche senza il cinema?) che riesce tuttavia a incantare i cinefili? Un poeta del tempo e della memoria, ostico e profondo? "Un pittore baudelairiano delle corrispondenze e degli istanti fuggitivi", come la definito Thierry Jousse sui Cahiers du Cinéma? Un neo-manierista che gioca con gli specchi e le apparenze del mondo, l'accanito partigiano di un'estetica da videoclip? E se invece fosse "il cineasta più originale e innovativo dell'intero cinema mondiale", come ha ipotizzato Federico Chiacchiari sulle pagine di Cineforum, una dichiarazione forte, fatta un po' per convinzione e un po' per scuotere una critica italiana sempre assonnata e tardiva.

La pluralità dei punti interrogativi riflette la sostanziale incollocabilità del cinema di Wong Kar Wai, ragione prima della sua modernità. Wong Kar Wai sfugge a ogni tentativo di classificazione e riduzione critica. E' un Autore, e ne è perfettamente consapevole, anche se si muove nell'ambito di un cinema (quello di Hong Kong) che ha costruito le sue fortune (e il suo incipiente declino geo-culturale) sul concetto corale di genere. In altri termini coniuga il posto caldo, la lezione individualistica e trasgressiva della post-classicità (in primis Godard e Rohmer) con l'impurezza conformista e anonima di un cinema che ha ormai perso se stesso, per espandersi in un posto freddo, in una dimensione audiovisiva inedita che ancora non conosciamo per intero. Wong Kar Wai in questa prospettiva paradossale lancia una sfida ai suoi spettatori: li seduce con una poetica e con la fascinazione delle sue forme, appagando così quel desiderio di autorialità ben descritto da Roland Barthes, ma al tempo stesso ricorda a questi stessi spettatori che stiamo vivendo in una storia post-autoriale (nella stagione dei promauteurs, per riprendere un gioco di parole di Daney, ovvero degli imprenditori, talora inventivi, dei cliché culturali).

L'Autore, nel cinema di oggi e forse in quello di domani, non può che rinascere in questo insieme di punti interrogativi: è un'ipotesi elusiva, una scrittura da sfiorare soltanto, per poi navigare in territori a lei stranieri. Wong Kar Wai è tutto questo. Un volto sempre nascosto, coperto perennemente dagli occhiali da sole. Un work in progress (sei film in nove anni) poco visibile (Ashes of Time e Days of Being Wild, forse i suoi capolavori, non sono mai arrivati dalle nostre parti) eppure potenzialmente popolare (perché lavora abilmente sull'estensibilità dei generi, perché struttura delle modernissime ronde narrative fatte di coincidenze e occasioni perdute, perché lavora con corpi di una bellezza angelica che si intravedono ma non si abbracciano). Un'identità geografica geneticamente meticcia, divisa tra la Cina comunista, Hong Kong, l'Argentina, e oggi di nuovo la Cina, una carta sulla quale si leggono, tra i tanti, i nomi inaccostabili di Puig, Godard, Massive Attack e John Ford, a edificare un'ipotetica città intertestuale tutta da leggere.

Il nostro quaderno si apre non casualmente con alcune dichiarazioni dell'Autore Wong Kar Wai: vi accorgerete subito di come il regista non voglia mai mettere in scena se stesso, ma parli sempre e solo dei suoi film. Wong Kar Wai non si interpreta mai: preferisce indicare, soltanto con le sue immagini, l'ipotesi di un territorio straniero dove unire il desiderio alla nostalgia, la possibilità di una geografia emotiva dove far rinascere l'insopprimibile necessità della visione: un atto del vedere da concepirsi finalmente come scelta (per smentire la terribile denuncia delle parole del videoartista Gary Hill: "La visione non è più la possibilità di vedere ma l'impossibilità di non vedere"). In queste pagine abbiamo cercato, non sappiamo con quali risultati (siamo certi soltanto della loro assoluta provvisorietà e eterogeneità) di raccogliere questa sfida e questa possibilità che l'incollocabile Wong Kar Wai ha lanciato a critici e spettatori. All'imprendibiltà enigmatica e seduttiva del suo "territorio" abbiamo risposto con alcune "ipotesi di viaggio", con differenti percorsi esplorativi, talora in reciproca contraddizione. A un cinema profondo e impuro abbiamo cercato di reagire con una critica polifonica, probabilmente non profonda ma altrettanto impura, impegnata a cercare, nella valorizzazione delle differenze di metodo, i fondamenti della sua ermeneutica. Il reportage, la lettura aforistica (Chatrian), la ricognizione obliqua di un corpus che pare avere raggiunto, con Happy Together, un punto di non ritorno (Nazzaro), la recensione, la traduzione, le metodologie suggerite da teorici vecchi e nuovi, da Jakobson a Deleuze (Zanello, Frasca), la critica vissuta come ripetizione quasi narrativa del viaggio spettatoriale (Alovisio), come detection lucida e appassionata (Aimeri) o, ancora, come una presa di distanza, quasi una smentita (Boano). Tutto questo, inevitabilmente, con gli occhi dell'occidente, ovvero con la presunzione (consapevole ma comunque illegittima) di chi guarda un orizzonte culturale ipercontaminato ma non per questo meno "altro" e antropologicamente oscuro (un'altra scommessa, forse per un altro quaderno...).

Nel corso di questo viaggio al plurale non abbiamo sognato di imbalsamare Wong Kar Wai in un autore di culto: di Tarantino ce ne basta uno, e l'autorialità ci sta stretta. Vorremmo soltanto che alla fine dei nostri piccoli sforzi e di quelli di tutte le persone che ci hanno aiutato nella realizzazione di questo progetto emergesse la luce incerta ma assolutamente moderna di Wong Kar Wai e della sua nuova visibilità delle passioni. Un'urgenza prioritaria, questa della visibilità, che giustifica persino il tradimento delle intenzioni dell'Autore (nel nostro caso così disponibile a farsi tradire, perché Autore "abitabile" ma non "autorevole"). Se guardare, come sembra suggerire l'ultima opera fiume del viaggiatore Handke, nell'orizzonte percettivo contemporaneo è già un'azione capace di trasformare gli eventi, allora senza la possibilità di guardare non può darsi un racconto, e senza racconto non può darsi un'immagine del mondo e del nostro essere-nel-mondo. Di qui la necessità di incrociare i nostri sguardi e di esperire le molteplici opportunità degli sguardi che ci guardano dai film di Wong Kar Wai: sguardi partecipi, o non comunicanti, sguardi persi nel loro onanismo pieno di lacrime e solitudine, sguardi muti che si parlano da dentro, sguardi estatici, impuri, traditori ma vivi. Pronti alla conversazione. E oggi, dentro un'utopia comunicativa potenzialmente liberticida perché dominata soltanto dalla trasmissione, la conversazione costituisce l'invito per una nuova rivolta dell'occhio: una scommessa invitante per una critica ancora tutta da costituire.

Silvio Alovisio