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Bresson da rivedere,
riascoltare e leggere

Tre libri che escono quasi in contemporanea su un autore difficile e oggi abbastanza dimenticato rappresentano un fatto notevole. Come è notevole che si sia organizzata prima una rassegna itinerante (Bellaria, Torino, Milano, Roma) nella primavera, e poi un convegno di studi a Udine due settimane fa su Bresson, autore scomodo e personalissimo. I tre libri si aggiungono al bel «Castoro» scritto moltissimi anni fa da Adelio Ferrero, purtroppo morto prestissimo, e al bel libro di Giorgio Tinazzi pubblicato da Marsilio nel 1976 (quando i libri della collana erano ancora arancioni anziché verdi). Nella «linea verde» comunque sono apparse qualche anno fa le imperdibili «Note sul cinematografo» del maestro francese, una summa elaborata cammin facendo ma che in Francia ha pubblicato solo nel 1975, cioè quando gli mancavano solo due film («Il diavolo probabilmente» e «L'argent»): sicché possiamo dire che l'elaborazione della sua estetica Bresson l'ha prima realizzata in concreto nei film, e solo successivamente l'ha stesa in forma definitiva sulla carta. Nei suoi scritti dunque troviamo delle conferme piuttosto che delle intenzioni programmatiche. E già questo è curioso.

Ma dai tre libri emergono due questioni che secondo me sono interessanti, al di là dell'analisi dei film, che è puntuale e accurata in Prédal e Arecco, mentre compare di quando in quando nel volume collettivo di Lindau. Prima questione, per la quale mi rifaccio essenzialmente a Prédal (il cui lavoro avevo peraltro acquistato in Francia nell'anno di uscita, 1992, come numero speciale dell'«Avant-Scène Cinéma»). Il critico ricostruisce nella prima parte un'idea di cinema basandosi molto sul metodo di lavoro di Bresson, con particolare attenzione al grande lavoro che fa suo sonoro (non ho trovato, tuttavia, qualche riferimento al suo quasi contemporaneo Tati, come mi sarei aspettato, altro grande artista dell'audio). Ne risulta una pratica di montaggio sonoro che prevede una vera e propria caccia al suono. L'esempio più interessante è in «Pickpocket», quando il protagonista si allontana in treno.(un Parigi-Milano). Il rumore di stridio delle ruote del convoglio in partenza, nelle intenzioni dell'autore doveva essere percepito come «soggettivo» dallo spettatore, quindi molto amplificato rispetto a una riproduzione realistica. Per ottenere questo risultato Bresson ha fatto registrare in piena notte, in una stazione deserta, il rumore di un treno destinato al deposito. Ecco, in questo modo di procedere ritrovo (e qui comincia l'ipotesi mia, forse campata in aria) non solo un metodo di lavoro basato sull'assemblaggio di materiali in origine scollegati, ma anche l'idea di un film ininterrotto, tutto mentale, dal punto di vista dell'autore, che si dipana negli anni, e che assomiglia a un'operazione di raccolta compiuta da un viandante pronto a riconoscere, qua e là, dei «pezzi» che servono coerentemente a mettere insieme un risultato finale, sorta di gigantesco ipertesto o iperfilm. Non dimentichiamo (e qui sono dati reali non miei deliri) che Bresson ha fatto pochi film (13 in 50 anni, anche perché non è facile per nessun produttore...), inseguendo per anni e decenni uno stesso progetto (come Lancillotto), avendo quindi in mente le proprie idee (poche e chiare, gran pregio) da sempre. Non si tratta solo di una tecnica, ma di una visione del cinema, che mi fa pensare molto al bel titolo di un vecchio libro di Edoardo Bruno («Film altro reale», ed. Il Formichiere, ora si trova ancora a metà prezzo). Non si tratta di ri-costruire (procedimento che Bresson aborrisce e taccia di «teatro filmato») ma di costruire un'idea coerente con materiali incoerenti o comunemente intesi come tali: si veda l'accostamento sonoro nel «Diavolo...», in chiesa, tra l'organo (che un accordatore sta accordando) e l'aspirapolvere dell'addetto alle pulizie. Un canto-controcanto, tra due anime sonore che fu studiato da Daney in un articolo splendido («L'organo e l'aspirapolvere», appunto) che Prédal mette in appendice. Il tutto ha per risultato, appunto, un'altra realtà, tutta mentale e rappresentativa, come pochi film e pochi autori ci fanno ancora vedere.

L'altra idea ha a che fare con la religiosità di Bresson, considerato, abbastanza giustamente, autore cattolico ma di un cattolicesimo particolare, molto interiore, quasi «giansenista» (il che, a un protestante, non può che interessare) per il rigore nelle sue ricerche sul male. Ora, capita che questa spiritualità venga a offrire spunti interessanti anche ai non credenti. Lo dice Bellocchio nella prefazione al libro Lindau; lo constata a più riprese Arecco nel suo (e forza un po' la mano, su questo terreno, secondo me). Soprattutto c'è Paul Schrader, di cui Spagnoletti-Toffetti hanno riportato nel loro libro alcuni brani della tesi sostenuta all'Ucla. Schrader individua le tappe di quello che chiama stile trascendentale, e che consiste, soprattutto nei film degli anni '50 («Diario di un curato di campagna», «Pickpocket», «Processo di Giovanna d'Arco») nel fatto che l'azione filmata (quasi sempre basata su episodi marginali, «mezze azioni» che non si sa bene dove portino...) riproduce quello che, prima o dopo, viene letto da una voce off, o che viene visibilmente vergato sulle pagine del diario o degli atti processuali. Un raddoppiamento che spiazza lo spettatore, in quanto un'azione in sé poco consistente viene elevata al quadrato: ciò fa pensare, secondo Schrader, che detta azione non sia poi così casuale: ci introduce cioè sulla soglia di un «ordine del mondo» deciso altrove, che sfugge alle nostre mani, che incombe come destino. Il laico (e qui è il sottoscritto che parla, e non più il povero Schrader che magari non concorderebbe) può rifiutare evidentemente questa teoria, nel senso che non accetterà un'istanza superiore a quella umana; ma può anche ritenere, senza per questo credere in Dio, che c'è un piano dove le cose ci sfuggono, c'è un aspetto del mondo che non riusciamo a controllare e che ci rende piccoli piccoli. Per questo Bresson parla a tutti. Tutti quelli che ovviamente accettano il suo gioco di ripetizioni, ellissi, inquadrature dei piedi, dettagli orchestrati in vista di una partitura raffinatissima.
Credo di poter dire con gli autori (soprattutto Prédal) che il suo è un cinema rigoroso, che poco o nulla concede allo spettacolo, ma che è di un'estrema complessità; non è scarno come si dice comunemente, è assai formalista, ma a questa forma corrispondono una serie di idee sul mondo e sull'uomo, che me la rende accettabile.

Alberto Corsani

 

* G. Spagnoletti - S. Toffetti (a cura di), Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson. Torino, Lindau, pp. 226 (di grande formato ricchissimo di foto); £ 35.000

R. Prédal, Tutto il cinema di Bresson. Milano, Baldini&Castoldi, pp. 314, £ 32.000

S. Arecco, Robert Bresson. L'anima e la forma. Recco, Le Mani, pp. 221, £ 25.000