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Falso Movimento
Il cinema come (pre)testo

  1. Migliaia di persone nel migliore dei quadri non vedono altro se non la favola che esso rappresenta.. (J.W. Goethe, Whilelm Meister theatralische sendung)
  2. Se si volesse predisporre un "dizionario dei luoghi comuni del cinema", alla voce ARTE troverebbe posto il vecchio adagio IL CINEMA E’ UN’ARTE POPOLARE, assunto non privo di un certo democratico compiacimento, ma purtroppo falso: le mostre-spettacolo di Kandinsky o di Warhol hanno accolto un numero di spettatori infinitamente più grande delle retrospettive su Ingmar Bergman, la musica di Verdi riempie gli stadi, un film di Moretti qualche sala romana.
  3. Le idee muoiono di consunzione, ma i loro nomi s’aggirano come spettri per qualche mezzo secolo ed oltre: è proprio il caso della menzogna del cinema come ARTE, finemente elaborata dal prestigiatore Melies agli inizi del secolo, neutralizzata ed estinta dalla macchina hollywoodiana una trentina d’anni dopo, senza lacrime di alcuno se non del povero critico europeo. Sorte analoga tocca alla fandonia del cinema come MEDIUM, oggetto di propaganda dei globalisti, maniaci dei piccoli monitor (facile immaginarsi McLuhan che sgranocchia popcorn davanti alla Tv negli anni ‘50-’60, o De Kerckhove oggi, mentre studia le chat room via Internet tracannando Bud o simili). Quando saranno spenti gli ultimi echi di queste corrotte dottrine potremo forse occuparci del cinema come TALE (ricordando lo slogan "la parola come tale" che definisce teoricamente nel 1913 le basi del futurismo russo).
  4. La prima operazione da compiere per affrontare un discorso sul cinema è individuare il carattere specifico del linguaggio cinematografico. Così come il Meister nel romanzo giovanile di Goethe s’interroga sulla natura dell’arte teatrale ("Da molto tempo ormai cerco di stabilire quello che appartiene all’essenza del lavoro drammatico e quello che ne fa parte solo accidentalmente"), nel nostro discorso dobbiamo separare il nucleo essenziale dagli espedienti artificiosi. Il cinema fonde un dispositivo visivo qual è la fotografia con un dispositivo fabulatorio qual è il romanzo: ne risulta un codice espressivo complesso, in cui visibilità e raccontabilità convergono, e in cui gli elementi della narrazione si sovrappongono agli elementi dell’osservazione. La distinzione più elementare si pone tra codici cinematografici (tutto ciò che è strettamente pertinente alla grammatica delle immagini: inquadratura, recitazione, montaggio, etc.) e codici filmici (tutto ciò che è prestato alla pratica cinematografica dalle altre pratiche artistiche, nonché tutto ciò che è derivato dai diversi campi del sapere, come il concetto di messaggio, sociale, politico o ideologico che sia).
  5. Il consumatore di cinema concede la maggior parte della propria attenzione al dipanarsi del racconto: le immagini costituiscono sovente un contrappunto ben orchestrato, che s’affianca al tema principale dei personaggi più o meno disegnati, delle situazioni verosimili, delle azioni logiche e perfettamente giustificate.
  6. Dunque la tela dello schermo sarebbe solo il supporto su cui si proietta una crudele sequenza di eventi interrotti; ne segue che la partecipazione emotiva dello spettatore funge da terminale dell’opera, da complemento irrinunciabile, oltre che da misura di giudizio. E’ questo il livello fenomenologico della visione cinematografica: il personaggio del film diventa persona.
  7. Il cinema narrativo fa stabilmente parte del bagaglio culturale del ceto medio, e riproduce se stesso con la medesima pervicacia; "i ceti medi non sono rivoluzionari, ma conservatori; anzi reazionari, perché tentano di girare all’indietro la ruota della Storia" (K. Marx); il cinema narrativo tenta di girare all’indietro la ruota della storia, ignorando programmaticamente la parte più cospicua della grammatica cinematografica. Identificazione e verosimiglianza; intrattenimento e disimpegno: ecco i punti fermi del cinema narrativo.
  8. Se il cinema narrativo nasce da un racconto, il cinema anti-narrativo nasce da un’idea.
  9. Jack Torrance di "Shining", Travis Bickle di "Taxi driver" non sono persone, nella misura in cui una verticale di Mondrian ha smesso di essere un albero. Non esiste più un rapporto analogico tra realtà e rappresentazione (la stessa cosa accade altrove, azzerandosi il rapporto tra arte e natura).Il cinema autenticamente moderno è dunque dis-narrativo: se il personaggio NON E’ una persona, è piuttosto un punto nello spazio della narrazione, individuato da coordinate di moto che ci informano dei suoi spostamenti di senso.
  10. Il cinema moderno pone in essere una salutare crisi della scrittura: il film-maker distrugge nella parola quanto in essa v’è di suggestione letteraria, per recuperarla al ruolo di suggestione cinematografica. Il cinema moderno afferra il potenziale espressivo della forma astratta, ben cinquant’anni dopo l’imperativo suprematista di Kasimir Malevic. Il ritardo è da imputare soprattutto ai pesanti equivoci sulla natura e sulle risorse del mezzo cinematografico, le cui origini si prestano a fraintendimenti d’ogni genere; d’altra parte proprio quando i Lumiere lanciano il treno sulle prime file del salone indiano del Grand Cafe in Boulevard des Capucines, a Parigi, altri due sguardi diffondono il concetto della potenza di un soggetto e della sua riduzione ad oggetto di analisi: la teoria psicanalitica e i raggi Rontgen. Gli equivoci durano a tutt’oggi, dunque non c’è da preoccuparsi.
  11. Metodi differenti di aggirare (o distruggere) la gabbia narrativa: dilatare l’azione fino a perderne coscienza è il credo del cineasta greco Thedoros Angelopoulos ("Il passo sospeso della cicogna"); Antonioni conferisce alla parola una pesantezza che ha il potere di allontanarla definitivamente dall’immagine ("Deserto rosso"); Rohmer infittisce il dialogo, s’avvicina a tal punto al personaggio e all’azione da deformare il racconto ("Incontri a Parigi"); descrivere un falso movimento è il denominatore comune dei road-movies di Wim Wenders; Godfrey Reggio e Philip Glass si appellano al principio del caos e giustappongono suoni-immagini in "Koyaanisqatsi".
  12. "Un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato dalle sue storie e dalle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse. Ma bisogna scegliere: o vivere o raccontare." (J.P. Sartre, La nauseè)
  13. Se è assodata, almeno da Cezanne in poi, la consapevolezza che il quadro o la scultura sono in primo luogo realtà autoreferenti, rispondenti a proprie leggi e codici linguistici, prima che alla rappresentazione del reale, il film offre apparentemente allo spettatore un surplus di analogie con l’oggetto rappresentato. Ma il cinema post-moderno ha rovesciato il globo dell’occhio verso se stesso, trasformandosi in linguaggio secondo: sono film come "Scream" di Craven o "The game" di Fincher ad inverare l’ipotesi di un racconto iperstrutturato, che equilibra l’operazione opposta, la disintegrazione dei tempi cinematografici attuata da Tsai Ming Liang, da Sharunas Bartas, da Olivier Assayas.
  14. "E poi?" — la domanda dello spettatore di film — merita una risposta articolata: la fine del moderno, salutata da alcuni scellerati come l’alba di una nuova era, è proprio un’altra storia. Il pesante armamentario del critico si trasforma in agilissimo know-how: l’opera (post-moderna) non chiede di essere capita, interpretata, ma di essere utilizzata; non presuppone un certo grado di cultura, perché essa stessa determina un grado di cultura.
  15. A quanti s’interrogano sul finale possibile dell’oggetto-film, converrebbe rivelare fin d’ora una verità semplice. Che dispiacerà senz’altro agli evoluzionisti, ai cultori dell’ibrido e dei linguaggi contaminati, ma che non può essere taciuta a tutti gli altri: (parafrasando Ponge) il futuro del cinema non può essere che il cinema.

Luca Bandirali
OFCS