Negli ultimi anni la guerra al cinema ha ricoperto molteplici forme. Lasciando da parte gli orrori retorici – la cui tradizione risale indietro allo sforzo del cinema in appoggio alla guerra ai nazisti – realizzati a maggior gloria del colonialismo imperialista americano, che in Pearl Harbor si permette impunemente di infilare menzogne e stravolgimenti della storia senza nemmeno ottenerne in cambio alcun prestigio artistico superiore a quelle noiose striscioline di trancianti micidiali inscenati nelle guerre mediatiche tra Baghdad e Belgrado; tantomeno valgono i western ambientati a Stalingrado per rendere onore alle belve naziste attraverso un duello improbabile, lasciando sullo sfondo la Resistenza dell'intera cittadinanza.
Per ripercorrere i mitici sentieri di cavalleria insiti nel confronto tra umanità sconfitta da La grande illusione o l'impegno antimilitarista kubrickiano da Orizzonti di gloria al visionario Full Metal Jacket, passando per Apocalypse now, sono validi almeno tre approcci cinematograficamente pregevoli di utilizzo del caso bellico, tutti diversi, provenienti da continenti e tempi lontani e con presupposti differenti: dall´heideggerismo estetizzante di Terence Malick con La sottile linea rossa che finisce comunque nella destinale inutilità della umana ricerca filosofica di un senso da attribuire al titanismo della Guerra, pari solo a quello della Natura; al Kippur materico al punto da impastare i corpi di fango e colori, impaludandoli nell´inanità dello sforzo bellico, per giungere con Il mestiere delle armi di Olmi all´urlo trattenuto nella compassata speranza – vana già nel momento in cui si pronuncia l´anatema contro la poco cavalleresca arma da fuoco – che mai più si usi contro l´uomo.

In comune c´è il senso di sconfitta ad aleggiare sull´agitarsi delle figure, in ogni caso ridotte a burattini in mano al destino, svuotate e riempite tanto di vacuità dell´orrore – il vuoto interiore dei forsennati marines, agiti dalla foresta e posseduti da un´insana follia, diventa svuotamento progressivo di qualunque velleità degli infangati soldati di Sion e infine approda nuovamente (dopo l´intuizione di Bresson) alle armature svuotate del loro contenuto e ridotte a puri involucri lasciati penzolare desolatamente dopo gli slanci poderosi scaricati dagli affreschi di Paolo Uccello per documentare le cariche irruenti di Giovanni dalle Bande Nere – quanto di horror vacui: in tutt´e tre i casi si assiste a una rincorsa barocca a riempire il quadro di oggetti, riferimenti pittorici, citazioni verbali, documenti d´epoca, esagerazioni di gesti e parole e simboli che non riescono a sottrarre alla guerra la sua catalizzante attrazione seduttiva.

Vuoti simulacri alla mercé del destino che pretende il tributo di sangue per sostituire un´epoca a un´altra;
anche questo aspetto accomuna i film che si appressano alla materia, privilegiando richiami a immagini patrimonio comune agli occhi del mondo, come le foto di Capa per Saving Private Ryan, allontanandosi dalla fiction, nonostante la spettacolarità dello sbarco, proprio come l'intento cronachistico mantiene un rigido distacco dalle vicende di Joanni, pur non rifuggendo dal condividere il suo sguardo che va spegnendosi sul mondo, accompagnato dalla precisione della ricostruzione, più attenta a creare tableaux vivants che a distanza di secoli recuperano le uniche fonti valide per rappresentare un'epoca, magari lasciandosi andare a tratti onirici: incubi surreali dell'inconscio di quel tempo

Pisanello, affresco in Palazzo Ducale di Mantova

E la terribilità degli idealisti convinti di dover a ogni costo difendere un modo di vivere civile di fronte alla minaccia della barbarie, anche passando per spietati avventurieri scalmanati.