Umberto Eco

E Jacopo si era inoltrato nel cimitero, guidato dallo psicopompo coi nastrini di Addis Abeba. Tutto intorno era bianco, il muro battuto dal sole, le tombe, la fioritura degli alberi di cinta, la cotta del prevosto pronto a benedire, salvo il marrone fané delle foto sulle lapidi. E la gran macchia di colore data dai drappelli schierati davanti alle due fosse.

"Ragazzo," aveva detto il capo, "tu ti metti qui, di fianco a me, e al comando suoni l´attenti. Poi, al comando, il riposo. È facile, no ?"

Facilissimo. Salvo che Jacopo non aveva mai suonato né l´attenti né il riposo.

Teneva la tromba col braccio destro piegato, contro le costole, la punta leggermente in basso, come si fa con una carabina, e aveva atteso, testa alta pancia in dentro e petto in fuori.

Terzi stava pronunciando un discorso asciutto, con frasi molto corte. Jacopo pensava che per emettere lo squillo avrebbe dovuto alzare gli occhi al cielo, e il sole lo avrebbe accecato. Ma così muore un trombettiere e visto che si muore una volta sola tanto valeva farlo bene.

Poi il comandante gli aveva sussurrato: "Ora." E aveva cominciato a gridare: "AAA..." E Jacopo non sapeva come si suona un at-tenti.

La struttura melodica doveva essere ben più complessa, ma in quel momento era stato capace di suonare do-mi-sol-do, e a quei rudi uomini di guerra pareva bastare. Il do finale era stato intonato dopo aver ripreso fiato, in modo da tenerlo a lungo, per dargli il tempo - scriveva Belbo - di raggiungere il sole.

I partigiani erano rigidi sull´attenti. I vivi immobili come i morti.

Si stavano muovendo solo i becchini, si udiva il rumore delle bare che calavano nelle fosse, e lo srotolio delle corde ritirate su, mentre sfregavano contro il legno. Ma era un moto fievole, come il guizzare di un riflesso su di una sfera, dove quella lieve variazione di luce serve solo a dire che nello Sfero nulla scorre.

Quindi il rumore astratto di un presentat-arm. Il prevosto aveva mormorato le formule dell´aspersione, i comandanti si erano avvicinati alle fosse e avevano tirato ciascuno un pugno di terra. E a quel punto un ordine improvviso aveva scatenato una scarica verso il cielo, ta-ta-ta, tapum, con gli uccellini che si levavano schiamazzanti dagli alberi in fiore. Ma anche quello non era moto, era come se sempre lo stesso istante si presentasse sotto prospettive diverse, e guardare un istante per sempre non vuol dire guardarlo mentre il tempo passa.

Per questo Jacopo era rimasto fermo, insensibile alla stessa caduta dei bossoli che gli rotolavano ai piedi, né aveva rimesso la tromba al fianco, ma la teneva in bocca, le dita sui tasti, rigido sull´attenti, lo strumento che puntava diagonale verso l´alto. Egli stava ancora suonando.

La sua lunghissima nota finale non si era mai interrotta: impercettibile agli astanti, usciva ancora dalla campana della tromba come un soffio leggero, un refolo d´aria che egli continuava a immettere nell´imboccatura tenendo la lingua tra le labbra appena aperte, senza premerle sulla ventosa d´ottone. Lo strumento si manteneva proteso senza appoggiarsi al viso, per pura tensione dei gomiti e delle spalle.

Jacopo continuava a emettere quella illusione di nota perché sentiva che in quel momento egli stava sgomitolando un filo che teneva il sole a freno. L´astro si era bloccato nel suo corso, si era fissato in un mezzogiorno che avrebbe potuto durare una eternità. E tutto dipendeva da Jacopo, bastava che egli avesse interrotto quel contatto, mollato il filo, e il sole sarebbe balzato via, come un palloncino, e con lui il giorno, e l´evento di quel giorno, quella azione senza fasi , quella sequenza senza prima e dopo, che si svolgeva immobile solo perché così era in suo potere di volere e di fare.

Se avesse smesso per soffiare l´attacco di una nuova nota, si sarebbe udito come uno strappo, ben più fragoroso delle raffiche che lo stavano assordando, e gli orologi si sarebbero rimessi a palpitare tachicardici.

Jacopo desiderava con tutta l´anima che quell´uomo accanto non comandasse il riposo - potrei rifiutarmi, si diceva, e rimarrebbe così per sempre, fai durare il fiato sin che puoi.

Credo fosse entrato in quello stato di stordimento e vertigine che coglie il tuffatore quando tenta di non riemergere e vuole prolungare l´inerzia che lo fa scivolare sul fondo. Tanto che, a cercar di esprimere quello che lui allora sentiva, le frasi del quaderno che leggevo ora si rompevano asintattiche, mutilate da puntini di sospensione, rachitiche di ellissi. Ma era chiaro che in quel momento - no, non diceva così, ma era chiaro: in quel momento egli stava possedendo Cecilia.

È che Jacopo Belbo allora non poteva aver capito - né capiva ancora mentre scriveva di se stesso inconsapevole - che egli stava celebrando una volta per tutte le sue nozze chimiche, con Cecilia, con Lorenza, con Sophia, con la terra e con il cielo. Unico forse tra i mortali egli stava portando finalmente a termine la Grande Opera.

[...]

Come si può passare una vita cercando l´Occasione, senza accorgersi che il momento decisivo, quello che giustifica la nascita e la morte, è già passato ? Non ritorna, ma è stato, irreversibilmente, pieno, sfolgorante, generoso come ogni rivelazione.

Quel giorno Jacopo Belbo aveva fissato negli occhi la Verità. L´unica che gli sarebbe stata concessa, perché la verità che stava apprendendo è che la verità è brevissima (dopo, è solo commento). Per questo stava tentando di domare l´impazienza del tempo.

Non l´aveva capito allora, certamente. E neppure quando ne scriveva, o quando decideva di non scriverne più.

L´ho capito io questa sera: occorre che l´autore muoia perché il lettore si accorga della sua verità.

L´ossessione del Pendolo, che aveva accompagnato Jacopo Belbo per tutta la vita adulta, era stata - come gli indirizzi perduti del sogno - l´immagine di questo altro momento, registrato e poi rimosso, in cui egli aveva davvero toccato la volta del mondo. E questo, il momento in cui aveva gelato lo spazio e il tempo scoccando la freccia di Zenone, non era stato un segno, un sintomo, un´allusione, una figura, una segnatura, un enigma: era ciò che era e che non stava per niente altro, i momento in cui non c´è più rinvio, e i conti sono pari.

Jacopo Belbo non aveva capito che aveva avuto il suo momento e avrebbe dovuto bastargli per tutta la vita. Non l´aveva riconosciuto, aveva passato il resto dei suoi giorni a cercare altro, sino a dannarsi. O forse lo sospettava, altrimenti non sarebbe tornato così sovente sul ricordo della tromba. Ma la ricordava come perduta, e invece l´aveva avuta.

Credo, spero, prego che nell´istante in cui moriva oscillando col Pendolo, Jacopo Belbo questo abbia capito, e abbia trovato la pace.

Poi era stato comandato il riposo. Avrebbe ceduto in ogni caso, perché gli stava mancando il respiro. Aveva interrotto il contatto, poi aveva squillato una sola nota, alta e a intensità decrescente, teneramente, per abituare il mondo alla melanconia che lo stava attendendo.

(Umberto Eco, Il Pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, 1988, pp.499-502)