Rivelazioni di altri mondi possibili: la scatola dei tesori

L'esempio più eclatante di utilizzo degli oggetti come acquisizioni della memoria è dato dal ritrovamento da parte di Amélie di una scatolina di latta, una collezione autobiografica, riposta anni prima dal suo proprietario in un nascondiglio, poi dimenticato.

«Solo il primo uomo che è penetrato all'interno della tomba di Tutankhamon potrebbe capire l'emozione di Amélie, mentre scopre questa scatola di tesori che un bambino si è curato di nascondere una quarantina d'anni fa».

La scatolina contiene: una puntata delle avventure di Gaston Choquet (Le Poison qui rend fou), una figura di porcellana, alcune biglie e astragali, ciclisti di stagno, un fischietto in alluminio rotto, un mazzo di 36 carte (made in China) vinto in una fiera, alcune cartoline della Svizzera tedesca, un modellino di una Maserati 2,5 litri della scuderia belga, una foto di Just Fontaine (capo cannoniere alla Coppa del Mondo del 1958 in Svezia con tredici goal), un coltello a serramanico in madreperla con otto funzioni: cacciavite, apribottiglie, trivello, cavatappi, punteruolo, apriscatole e due lame.

«All'improvviso, il 31 agosto alle quattro del mattino, Amélie ha un'idea luminosa. Ovunque sia il proprietario della scatola dei ricordi, lei lo ritroverà. Se ne rimarrà commosso, è deciso, Amélie comincerà ad occuparsi della vita degli altri. Altrimenti, tanto peggio.»

Il ritrovamento fa scattare la prima caccia al proprietario del tesoro, il ragazzino che negli anni '50 abitava lo stesso appartamento: dalla portinaia si passa al droghiere, per scovare l'indirizzo dei suoi genitori (ex-inquilini dello stesso stabile), che, dopo essersi lasciati andare alle proprie nostalgie dei tempi passati, finalmente scuciono un'informazione utile, aggiungendo un'altra tessera al mosaico intitolato "Alla ricerca dell'infanzia perduta in un tempo ritrovato". Rintracciato il nome del ragazzino, Dominique Bredoteau, la consultazione dell'elenco telefonico fa perdere un po' di tempo in chiamate alle persone sbagliate, seppur omonime, che vanno a formare una nuova collezione di casi disparati, accomunati da un elemento, in questo caso il nome errato, scoperchiando così il meccanismo a monte delle infinite digressioni di una narrazione che alla propria linearità intrinseca oppone innumerevoli divagazioni: ancora una volta il sistema adottato è l'accumulazione di situazioni e storie innescate da oggetti palesemente pretestuosi.

Ciò non significa che questi non siano significativi, infatti normalmente i raccordi intermedi - quelli che intraprendono questi sentieri presto interrotti - sono scelti in modo da evocare un aspetto di quel mondo perduto che avvertiamo in pericolo di dissoluzione grazie al rapporto individuale di ciascuno con la percezione della realtà, che si è andata costruendo sulle impressioni infantili, di cui l'animazione degli oggetti è un altro sintomo: da bambini si tende a riconoscere in ogni oggetto un confidente capace di condividere il "favoloso" mondo e perciò il bambino assegna parte della propria personalità a questi alter ego con cui dialogare: i quattro baffuti stile Peroni della fototessera o il maialino dell'abat-jour.

Infine la rivelazione risolutiva arriva dal vicino di casa, il signor Dufayel, proprio l'uomo di vetro incontrato ogni giorno sul pianerottolo, che si ricorda di un Bretodeau, con la "t" e la "d" al posto giusto. L'indirizzo esatto del proprietario viene scoperto e il contatto telefonico stavolta è fortunato: l'ex ragazzino collezionista potrà ritrovare la scatolina dei suoi ricordi in una cabina telefonica.

«Strana la vita ... Quando uno è piccolo, il tempo non passa mai, poi, da un giorno all'altro, ti ritrovi a cinquant'anni ... E tutto ciò che rimane dell'infanzia sta in una piccola scatola arrugginita ... In un attimo tutto torna in mente a Bretodeau. La vittoria di Federico Bahamontes al Tour de France ... Le sottane della zia Josette ... e soprattutto quella tragica giornata, in cui vinse tutte le biglie dei compagni durante la ricreazione ....»

Amélie interviene a recuperare un'infanzia (diversa dalla sua) per salvarla dall'oblio: ricordi affidati a una fetta di passato recuperabile con il semplice gesto dell'apertura di una scatolina, avvenuta attraverso coincidenze ammissibili solo se si accetta di farsi pilotare dalla predisposizione a credere alle manifestazioni più fantastiche, come un telefono che squilla in una cabina solo per noi (evento avulso da una società cellularizzata, ripetuto nel film anche nella sequenza a Montmartre, degna di Zazie dans le métro) come un segnale dal passato. Proprio il fatto che si possa ricondurre il tutto al bisogno di riconciliarsi con il proprio passato, che si ordisca questo onirico plot sulla scorta di atmosfere che attingono allo stereotipo parigino proprio perché attraverso questi cliché possa ricostituirsi l'incanto precedente la globalizzazione, consente di oltrepassare la sensazione di assistere a un'operazione di retriva nostalgia nazionalistica - come sicuramente a un palato francese non può non affiorare alla mente assistendo a quella carrellata di object trouvé con forti connotazioni francesi - e approdare invece alla soddisfazione del bisogno di ricreare fragranze cancellate dalle novità della società consumistica di stampo americano; un'infanzia compressa in oggetti di scarso valore (economico, ma non affettivo), che una volta ritrovati, fanno scattare l'effetto madeleine.

Dunque molto del fascino (o del disturbo di cui si è fatto portavoce les Inrockuttible) deriva da una collezione di atmosfere che per forza di cose riconducono all'identità nazionale quelle serie di oggetti e riferimenti la cui referenzialità finisce con l'attribuire una dignità particolare in quanto riconoscibili dal singolo? Oppure la sensibilità nei loro confronti scatta nel momento in cui essi sono oggetti a tal punto condivisi da una generazione da attribuire loro una partecipazione alla tradizione, incarnandola e perpetuandola non appena riappaiono? In entrambi i casi al fruitore non francese confermano la sua idea stereotipata di "francesità", a cui però rimane legato altrettanto pervicacemente dei francesi stessi, traendo piacere dal ritrovare quelle atmosfere sempre un po' agé. Per contrasto gli autori ingaggiano lo stesso attore che in Diva - altro film che vent'anni fa aveva condotto la medesima operazione "nostalgica" - interpretava il ruolo di un sicario che ascoltava polke al walkman (ma questo lo si scopre solo alla fine dopo la sua morte) ripetendo sempre una frase: "Non sopporto ...": anche in questo caso svolge il ruolo spiacevole dello sciovinista e incarnando la componente reazionaria della società francese, assolve per contrasto Amélie dalle accuse di conservatorismo. Altra imputazione è il buonismo, ma la melassa tanto utile per attrarre le masse in realtà è solo una facciata che nasconde un raffinato uso del linguaggio cinematografico: gli spunti di maggiore impatto sintattico derivano invariabilmente da urgenze etiche (il senso morale è un altro tropo della cultura francese che s'indigna ancora se le presentano un cialtrone del calibro di Sgarbi come raffinato intellettuale).

L'episodio del cieco evidenzia il fatto che su una frase retorica, un luogo comune (come aiutare un non-vedente ad attraversare la strada, la più tipica buon'azione degli scout) che rasenta la banalità più smaccata (come lo sciogliersi di struggimento, ma che maestria! La sintesi nell'immagine, come nell'incipit del XVII capitolo di Zazie: "Una lacrima cadde su un crostino ardente e vi si volatilizzò" p. 181 dell'edizione Nuovi Coralli Einaudi, Torino 1981) si può invece ancora intessere un gioco linguistico originale che finisce in un crescendo da musical con una carrellata raccontata a voce in un effetto stereofonico dato dalle immagini commentate dalle parole che duplicano la realtà in un raddoppio vertiginoso che accelera ulteriormente la sequenza già molto cadenzata dall'incalzare delle azioni quotidiane, che diventano così ulteriore metodo per ricostruire il tipico movimento del quartiere parigino attraverso le più classiche tra le sue espressioni, che isolate dalla carrellata e sottolineate dal commento di Amélie a vantaggio del cieco diventano altri tasselli per la creazione del favoloso mondo. Dunque non l'opera buona in sé trova ragione di essere, quanto la prassi linguistica di creare un nuovo repertorio narrativo fatto di image-mots che risemantizzano, duplicandola, la realtà ripresa, dimostrando che con la stessa sintesi delle immagini riesce a raccontare un mondo a parole.

"Ogni ora della nostra vita, appena morta, s'incarna e si nasconde in qualche oggetto materiale, e vi resta prigioniera per sempre, salvo che noi non ci imbattiamo in quell'oggetto. Attraverso lui la riconosciamo, la chiamiamo ed essa viene liberata ..."
Marcel Proust, Recherche


Raoul Ruiz, Le Temps retrouvé, 1999.

La pulsione scatenata dalla sua relazione con oggetti nascosti, smarriti, oppure inesistenti, ma reali nelle fantasie di qualcuno, spinge Amélie ad industriarsi per far avvenire l'incontro tra i destinali proprietari del sogno e il sogno stesso: un tentativo che va nella direzione del completamento di tutti i repertori possibili, dando senso alle collezioni mostrate; con la consapevolezza tuttavia che ci sarà sempre una nuova collezione o una diversa accezione della raccolta (una differente interpretazione delle fotografie istantanee che ribalta il criterio di catalogazione) a lanciare un inedito racconto che viene da lontano, cominciando in un passato quasi perduto, di cui l'oggetto è testimone unico, in grado di scatenare però innumerevoli ricordi che a loro volta danno luogo ad altrettante narrazioni, che si intrecciano nel reticolo di percorsi; e quando si intersecano queste reti formano "nodi" costituiti da combinazioni («Quante persone stanno raggiungendo l'orgasmo in questo momento a Parigi?» Sguardo in macchina birichino: «Quindici», è la risposta del collezionista informato) casuali, probabilmente, ma il dubbio che ci sia un disegno sotteso al fato è forse la molla che spinge a raccogliere dati per farli interagire e trovare la chiave per comporre il puzzle. Nell'inquadratura finale le rivelazioni affidate agli oggetti, intesi come indizi per interpretare il mondo, vengono esplicitate persino dal tipo seduto sulla panchina, a cui viene affidato il compito di svelare il segreto del favoloso universo filmico appena visto: «Il mondo è una classificazione di collezioni».