La componente interpretativa si scontra con la realtà ripresa alla Capa. Campi lunghissimi inondati di luce e nessuna parola al di fuori di quelle prescrittive dell’azione di soccorso, ragazzi impegnati e solidali in imprese che creano plastiche sculture simili ai marines che issano la bandiera a Iwo Jima, solo che in questo caso scaricano moribondi da carri armati, si inerpicano su cannoni puntati con intenzione verso di noi, rimangono bloccati nel fango, ma non per un’impresa distruttiva, quanto per salvare una vita: e quindi risulta più frustrante la disperazione di dover abbandonare l’intento. Il senso di sconfitta è centrale nel lungo episodio del soldato morto da abbandonare nel fango nell’epilogo del film , immediatamente prima dell’abbattimento dell’elicottero di soccorso: la sequenza ha qualcosa di allucinatorio e la scelta di non avvicinarsi mai ai soldati sprofondati nella mota, registrando l’enorme fatica di gesti lenti, tantalici nella loro titanica inutilità, accentua l’immobilità della scena che dura un’infinità sempre puntando quei gesti scomposti in mezzo al quadro, che in sé non è metafora dell’inanità della guerra, ma lo diventa – riacquisendo anche l’originario significato di svuotamento insito nel lemma "inane" – nell’inquadratura successiva, riscontrata la morte del soldato trasportato, quando i giovani si lasciano andare, prosciugati, ad uno scomposto quadro da Pietà rassegnata, abbandonati in terra esausti e sconfitti attorno al cadavere.

Anche in questo caso, come avviene spesso pure nei film sulla situazione balcanica, la sensazione più ricercata è l’abbandono del drappello in un territorio desolato da Waste Land e l’elicottero-lazzareto è quasi cinema-verità nella più trasparente tradizione Gitaïana. La guerra finisce con il ridisegnare il territorio, rendendolo alieno, infido, sconosciuto. Ma anche morbosamente attraente.