Dopo Nosferatu e prima di emigrare Murnau realizza nel ’26 Faust: mescolando Goethe e Marlowe, ma soprattutto alternando le precedenti ispirazioni dostoievskijane, fatte di sacrificio, con un’evoluzione dell’allucinazione di luci fluttuanti tra le ombre sulfuree tipiche dei più ispirati film dei primi anni ‘20, non più semplicemente "ammonitrici" che diventano qui a tratti futili scherzi da attore teatrale e a volte rappresentazione degna dell’opera di Gounod, senza però perdere l’ossessività dei toni.
In realtà, nonostante la stroncatura senza appello fatta da Kracauer, il processo che sta a monte del Faust sembra un compendio di tutto ciò che era stato l’espressionismo e valida rappresentazione del "periodo stabilizzato": la paralisi di Weimar, il sonno della ragione che genera mostri nazisti, intenzioni realistiche fanno capolino e sono soffocate da quelle più esplicitamente espressioniste, allucinate, dove il paesaggio stesso è congelato, non solo perché invernale ma perché espressione dell’autorità e del caos.
Gli incubi da camera della Neue Sachlichkeit vengono ostracizzati con l’accettazione dell’abisso, la perdita di sé, quasi che solo chi si perde possa ritrovarsi, diverso, purificato dal fuoco e dall’amore: in fondo lo stesso tema di Nosferatu, il tiranno assetato di sangue sconfitto dal grande amore di Nina, che apparentemente si arrende ai denti del vampiro ma in questo modo si sacrifica per salvare il mondo. Un sacrificio inconsapevole.
Cadenzato sulle escursioni nell’inconscio, ma agganciato ai testi classici che ne organizzano la trama, Faust filtra i momenti di dissociazione mentale, collocandoli all’inizio e imparentandoli con l’attività di studioso, poi è la normalità a trasformarsi con le luci (la soglia della casa di Gretchen vista da fuori illuminata in base alle emozioni e invece l’interno ordinato ma senza angoli vivi, tutto arrotondato) e infine a paralizzarsi in attesa della bufera, dell’ordalia, della catarsi, che invariabilmente non possono non abbattersi sull’uomo rassegnato. Autobiografia ideale in chiave di autocritica preveggente, che troverà poi nel dopoguerra in Thomas Mann l’autore più adatto per riprendere il testo di Goethe dopo il nazismo.