(idee non troppo confuse sul "realismo deformato")
Gli autori sono condotti fatalmente all'inquietante intercambiabilità di vite e ruoli. Proprio questo si lega al realismo deformato che già con After Hours di Scorsese o Wild Thing di Demme aveva insinuato i primi dubbi che la realtà affrontata quotidianamente potesse essere fallace e ne esistesse un'altra, pronta a fare capolino non appena si concede la possibilità di un minimo scarto dai binari della quotidianità: nel caso del programmatore capitato nel quartiere degli artisti egli scopriva di poter vivere un incubo, assistendo alla rappresentazione del suo stato di uomo senza caratteristiche come una scultura di Segal, la scatenata Melanie Griffith invece svelava un mondo di trasgressione, offrendo un riscatto all'uomo ancorato a certezze che ormai gli erano venute meno. Proyas una dozzina d'anni dopo arriva ad inscenare addirittura il costante cambiamento di identità, eseguito da sorta di necrofori, che, come se cambiassero quinte sceniche tra un atto e l'altro, spostano corpi e destini; e anche la nostra percezione del mondo che scorre sullo schermo è costretta a inseguire le successive evoluzioni. Nella rincorsa tuttavia non si deve fare l'errore degli alieni, elencando ipotesi plausibili, per immaginare cosa ci sia realmente dietro il labirinto, perché come loro non troveranno l'anima, così noi rimarremmo spiazzati e alla mercé del mondo come l'ha immaginato John Murdock. Dunque il film è permeato da una autorialità, che si fa forte del fatto che inanella il racconto a partire dalla conoscenza della mappa del labirinto. |