Alex Proyas, regista del cult maledetto The Crow (Il corvo, 1994), ritorna con un film che, forse ancora più del lavoro precedente, sembra votato al piccolo empireo del culto. Anche qui le atmosfere e i toni sono dark (ma meno fumettistici di quanto non appaia a prima vista: qui il debito è esplicitamente con il noir). Dark City è (letteralmente) una città affogata nella notte, nell'oscurità: le ventiquattr'ore sembrano dimezzate, ridotte a quelle notturne (ma la verità si rivelerà ancora più sconcertante). L'incipit pare collocare il lavoro nello schema del thriller di ambientazione metropolitana (ma è una metropoli Anni'40; mentre il thriller, per molti versi derivante da quella frangia del noir che iniziava a popolarsi di personalità disturbate, tende perlopiù a essere situato nella dimensione della contemporaneità - ovviamente relativa alla data di realizzazione). Un uomo comune si risveglia, in stato d'amnesia, in una stanza d'albergo con un cadavere di donna ai piedi del letto. Presto thriller e mistery (whodunit? Chi ha ucciso la donna? Chi è quest'uomo? E' stato lui?) si fondono mentre l'omicidio si inanella con schegge di memoria che aprono un nuovo fronte: Quest'uomo (John Murdock) è l'ennesimo serial killer del panorama in celluloide Anni'90? Ma, ancora una volta, secondo il ritmo vorticoso (a spirale) che è una delle cifre dell'operazione, si determina una nuova sterzata: il "realismo" che appartiene al dna del noir, la verosimiglianza (relativa) che è ingrediente della suspense, la logica che è motrice del mistery, cedono il campo al puro fantastico con venature gotiche; irrompono sulla scena gli spettrali Strangers, nosferatu dal perenne feltro calato sulle teste rasate, e il mad-doctor/Kiefer Sutherland che, non casualmente, di secondo nome fa Poe. Seguendo il conflitto che prende le forme di un "intreccio di caccia (all'uomo)", esploriamo gli spazi metropolitani che si rivelano essere connotati da tratti futuribili, assomigliando chiaramente alla Metropolis langhiana (1926). E questo retrogusto di futuro si fa ben presto evidente, passa in primo piano: mano a mano che ci si avvicina all'origine del mistero (e alla fine del film), scopriamo con il protagonista (la narrazione è rigorosamente a focalizzazione interna, altrimenti verrebbero meno le condizioni del mistery incubico) che siamo stati sbalzati nella science-fiction più disperata.

Puro post-modern in salsa apocalittica da consumarsi preferibilmente entro la fine del millennio: cinema cannibalistico il cui meccanismo base consiste nell'abbondanza e nella stratificazione esasperata di citazioni e rimandi intertestuali, nel travalicamento continuo dei generi in una sorta di messa in scena della loro dissoluzione: Dark City è un patchwork portato alle estreme conseguenze, un creatura di assemblaggio cinematografico frankensteiniana gonfiata ipertroficamente, ma che, pur nell'estrema disomogeneità di fonti elementi percentuali, presenta una compattezza e un rigore estremi. Difficile penetrare il testo perché, appena vi si accede da una delle mille porte spalancate ed invitanti, si scopre che, in misura ben superiore alla media, ci si trova nel mezzo di un labirinto studiatissimo: i possibili percorsi di lettura si svelano molteplici, intrecciati, tutti perfettamente funzionali al tema affrontato eppure tutti apparentemente divergenti. Disorientante condurre una detection critica esattamente come lo è per l'investigatore William Hurt all'interno della "città ombra".

Forse più che altrove, per esplorare Dark City può risultare utile la creazione di un ipertesto che, riproducendone in ultima analisi la texture (ma distinguendo tra materia narrata, struttura del racconto e discorso filmico) offre la possibilità di una sua rappresentazione/pianificazione: grazie alla scrittura/lettura non lineare è possibile che la scatola si scoperchi, che l'architettura dell'edificio narrativo si evidenzi. La possibilità di lavorare "a parentesi", a spirali complementari, e a più mani (quindi con un bagaglio di competenze moltiplicato), permetterebbe anche di rispondere parallelamente ad un altro input che il film sembra inviarci con insistenza: Dark City presenta punti di contatto ed analogie fortissime con altre pellicole recenti, offrendo quindi l'apertura per un discorso più ampio su certe tendenze del cinema contemporaneo statunitense-e non solo