La cupa notte di Proyas è appesantita dal design anni '40 e intristita da un orwelliano Hurt, che si perderà ancora attonito nello spazio come gli astronauti di 2001, senza la scanzonata ironia di Dark Star, sostituita da un velo di malinconia, che per tutto il film evoca una mancanza di cui si avverte l'esigenza, ma che continua a far parte del rimosso, come se nei recessi della mente persistesse un ricordo che non si riesce a mettere a fuoco, o che la volontà rifiuta, per evitare di riconoscere la solitudine e la precarietà della vita; colpisce per il soffocamento che né la pioggia di Blade Runner (qui forzatamente inesistente), né le superfici levigate di Gotham riescono a trasmettere: c'è qualcosa di organico e opprimente, che fa da stimolo a spiegare l'impulso ad uscire, anelando la luce del sole, magari fittizio, una pietosa menzogna della volontà, ma capace di cacciare le creature della notte, cadaveri ambulanti in grado di spostarsi levitando come figure di Moebius.
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