"Qualcuno ricorda come ci è finito?", a partire da questa domanda si insinua il dubbio che, come sono state scelte quelle persone assolutamente normali, potremmo allo stesso modo finire noi stessi in quella situazione. |
Forse è proprio la messa tra parentesi della ricerca delle cause che li conduce alla perdizione: essere tesi a trovare una soluzione può portare a raggiungere la salvezza, ma non a conseguirla: infatti fino a quando non si conoscono le ragioni della barbarie si è destinati a ricaderci, a non uscirne, a non volerne uscire, non trovando ragioni per l'uscita. |
Avvincente nel film è che gradualmente ci rendiamo conto di trovarci teoreticamente in quella situazione per cui il mondo è un carcere di quel tipo, carico di enigmi, costrizioni, che la comunità compressa aiuta a rendere insopportabili, scatenando idiosincrasie e, quello che è peggio, non se ne vede la fine: non si prospetta un termine di questa agonia, che diventa insopportabile quando si fa evidente la privazione della libertà e al normale male di vivere si aggiunge lo stress delle trappole mortali. Ma ancora di più ci convinciamo che non esiste un nemico o un progettista o un demiurgo, un entità che almeno gode sadicamente delle sofferenze, non esiste un grande fratello, che controlla o mette alla prova. Sembra un esperimento, in realtà è peggio dell'aleatorietà: è l'uso di uno spazio da in-cubo altrimenti inutile; catapultare sei personaggi (uno per faccia del cubo) in quel lager avviene soltanto per legittimarne la costruzione. Il risultato è che l'interno o l'esterno non fanno più differenza: "Non ho nulla per cui vivere là fuori" dice Worth alla fine, ritornando alla battuta iniziale secondo la quale non sapeva come riempire la vita..