«Un uomo del nostro tempo»: così viene definito il protagonista dell'Uomo che non c'era, in quella seconda parte del film che sembra precipitarlo nell'abisso; chiarito che non la moglie era l'assassina del proprio amante, ma lui, il marito, l'aveva fatto fuori dopo avergli estorto i 10.000 $ necessari per avviare l'impresa con il truffatore omosessuale. Uomo del nostro tempo: quale tempo? Quegli anni 40 a cui fa riferimento il film? A me sembra piuttosto un uomo del tempo nostro, nostro inteso come 2001-2002. Che cos'è la sua crisi, come precipita dall'esercizio quotidiano di un'attività rispettabile, seppure non esaltante, in compagnia del cognato che -dice il protagonista -«parlava sempre»? Anzi, chi è quest'uomo prima, prima di diventare un uomo del nostro (o di quel) tempo? Un uomo che si lascia piovere addosso (De Andrè, Canzone del padre)? Un Oblomov? Un Mersault che, novello "Straniero", attualizzerebbe nel delitto il pensiero di Camus sulla rivolta? Non sembra, perché Mersault è uno che teorizza.

Il nostro uomo invece (non) vive quel che gli capita, e fa intensamente ciò che gli capita. Al massimo grado. Senza esitazioni. Non è - come poteva essere in ambito naturalista - una persona destinata alla tragedia; nessun "milieu" penalizzato e penalizzante lo porta all'abisso. Non un'infanzia difficile, non la mancanza di denaro, e nemmeno la fatuità della moglie. Nemmeno l'indifferenza ve lo porta, perché - di nuovo - l'indifferenza è in realtà un'ideologia, per quanto poco disposti ad ammetterlo siano i suoi seguaci (ritorniamo a Dostoevskij e impareremo molto).

No, il nostro uomo è uomo d'oggi perché passa da una condizione (artigiano dipendente, esecutore di professione e marito poco convinto) a quella successiva, del tutto inusitata: prima soggetto di un'estorsione, poi autore di un omicidio, poi complice tacito di una ulteriore tragedia quando dell'omicidio viene accusata la moglie; poi ancora vedovo poco inconsolabile. Nel mentre si rende custode e amorevole sostenitore delle doti pianistiche della ragazza amica di famiglia. Chissà se è reale o immaginato il seguito, dopo che con la ragazza esce di strada e si sfracella nella sequenza di mirabolante manierismo, con il copricerchione che volteggia orbitando come un disco volante anni 50?

Ma il punto è proprio questo: non si notano differenze nel protagonista, dal prima al dopo; dall'uomo normale, barbiere becco ma non troppo scontento, all'uomo dei nostri tempi, che uccide e lascerebbe friggere la moglie al proprio posto sulla sedia elettrica. Con la stessa naturalezza egli incarna il proprio ruolo prima e dopo, vi si installa, vi si adatta, non fatica a modellarsi addosso questo ruolo, né quello successivo. È in fondo sempre lo stesso uomo; come i tanti (uomini, donne, ragazzi) che la nostra cronaca ci presenta come ottime e normalissime persone; sempre stati perbene. Finché... Finché si scopre che c'è un'altra vita, che la persona qualunque (e non il deviante per vocazione) è in realtà capace di fare di tutto: uccidere, rubare, tradire, infierire; e senza dilacerazioni. Non siamo di fronte a degli epigoni di Jekill-Hyde, la cui vita è nettamente articolata in due personalità contrapposte. No, sono sempre gli stessi, impenetrabili, inafferrabili. Nulla si vede da fuori, ma le persone cambiano, e noi continuiamo a vederle come siamo abituati, come le mamme ansiose che non vedono che i figli bambini diventano adolescenti, perché forse non vogliono vederlo. Lo dice la cronaca.

Il livello dell'immagine contribuisce a questa difficoltà di conciliare luci e ombre. Netta la separazione negli sfondi e negli ambienti, molto meno e con minore frequenza sui volti: se si è parlato di strizzatine d'occhio ai film "minori" degli anni 40 (e forse sf dei primi 50), io vedrei soprattutto due richiami: per il protagonista, per come è raffigurato, direi l'Henry Fonda "usato", manipolato da Hitchcock ("Il ladro") e per il "décor" il neoespressionismo di Orson Welles, il Welles che con qualche difficoltà si confronta con "Il processo". È un espressionismo deprivato della temperie culturale e dell'aria di catastrofe che allora incombeva sull'Europa, e quindi è come svuotato: resta come involucro, così come il corpo dinoccolato e però rigido di Billy Thornton sembra uno scafandro. All'interno, del corpo e delle "location" (la bottega di barbiere, l'emporio, il carcere, soprattutto l'automobile - ancora Hitchcock), c'è l'indicibile: lì di fronte, su quella soglia visiva, ci fermiamo tutti. Di fronte alla violenza incomprensibile "del nostro tempo", anche.

Alberto Corsani

Un uomo della modernità, che trova alimento per il suo stato trasognato in quelle pieghe della società novecentesca in cui si nascondono ignavi e uomini senza qualità; sono la vera globalizzazzione: ne troviamo tracce in John Cheever (tutto Falconer sembra un prologo al personaggio dei Coen e non a caso è un tossico che compie un percorso purufucatore in carcere per aver ucciso il fratello in un giorno di fine estate) come in Carver - e di conseguenza in Altman - ma anche in Oe Kenzaburo e tanta letteratura giapponese dall'Uomo scatola di Abe Kobo all'indifferenza di Mi farò mummia di Shimada Masaiko - che trova il corrispondente cinematografico nell'Anguilla di Imamura Shoei, dove forse non a caso il protagonista è un coiffeur -, da entrambi i lati del Pacifico si guardi il fenomeno dell'uomo inesistente, osservatore inattivo ed estraneo agli eventi, atarassico nell'accezione più negativa del termine, la sua epifania è preludio a uno scoppio di violenza, quello che troviamo in quasi ogni film giapponese degli ultimissimi anni, ovvero quello che Visconti ha reso purgandolo della sua gestualità, facendo emergere il "malditesta " di Mersault abbacinato dal sole (estremo rifugio per il sonno della ragione che genera gli ultimi fuochi del razzismo omicida di Mersault - ma anche i racconti di guerra del sedicente marine -, insensibile di fronte a qualsiasi dolore, compreso il suo); ecco, mi sembra che più che l'omicidio camusianamente senza motivo, da Lo straniero continui a sopravvivere il disagio arrecato dal fastidioso malditesta, che sembra anche nel caso del personaggio dei Coen accompagnare la ghigna sofferente di colui che è destinato (come Mersault) al patibolo. Forse perché inadeguato al mondo?
Però il primo riferimento va sicuramente a
Musil, soprattutto dopo che diventa esplicito il fatto che più osserva e meno conosce la reatà e in particolare se si ricercano le relazioni con l'epoca che accoglie l'uomo senza qualità che non c'era.

"Il semplice guardare cambia il fatto". La centralità di quel tipo di personaggio si conferma con il flusso di coscienza, ancora più evidenziato dalle interruzioni (ad esempio la telefonata), che lasciano fluttuare il discorso, come se l'unico flusso plausibile fosse quello della lucida follia di Ed e tutto il contorno non sia altro che amplificazione un po' stridente della logica del barbiere: il ricordo del "muso giallo" è prolessi dell'omicidio; i ragazzi con teste acconciate in modo stereotipato non son altro che cloni di tanti tipaz, ovvero di altri autistici che loopano in un loro mondo a forte concentrazione cinematografica. Quello stream of consciousness ha valenza altamente letteraria, anche perché rimane sospeso tra il flusso in soggettiva e quello che sembrerebbe provenire dall'esterno di Ed, da un fantomatico autore, che altri non può essere che il noir, sia come genere letterario, sia come taglio dell'inquadratura. E proprio dalla citazione (sulla poltrona ripreso dal basso, seduto eppure in piano americano, rannicchiato rievoca i plot del noir Quaranta, almeno quanto i finali di testi resi surreali dagli eventi e dai grandangoli che deformano la percezione della realtà, con stanze insostenibili perché allargate a dismisura), dall'evidente studio di quelle luci, che ritagliano sul nero la sagoma di un interlocutore nell'ombra o sparano l'alone delo spot incorniciando l'eroe in uno spazio innodato da un cerchio di luce; e dalle espressioni (che provengono più da flash di foto statiche di situazioni che da sequenze) si avanza quel distacco visionario camusiano (che in Usa assume le forme del minimalismo), come dalla distanza affettata del commento in voce off si addensa quella visione del mondo elementare e ineluttabile: "I capelli... continuano a crescere, sono parte di noi e noi li buttiamo".

La concezione di intreccio che ne scaturisce non può che essere il classico noir intessuto sulla serie di situazioni prospettate in modo che il risultato non può che essere una catarsi rovinosa e totale, in cui tutti i personaggi come in una tragedia classica, sono destinati a morire, perché inutili alla vita e una volta giunti alla consapevolezza di ciò, spariscono. "I nodi vengono al pettine".

"Suona la nota giusta ma non ha cuore". Questa definizione fotografa alla perfezione Ed, metafora di tutti noi, personaggi di questo nostro (quel) tempo, e proprio quella affermazione consente di rendere plausibile l'altrimenti beffarda affermazione che lo definirebbe "un passionale", lui che in tutto il film pare non cedere a nessun sentimento, abbarbicato alle sue abitudini e alla sua catatonia da barbiere. però anche per lui il tempo rallenta - si fa più rarefatto: permette di meditarci sopra - nel momento in cui sta per avvenire l'incidente: "Quando i capelli capiscono che l'anima se n'è andata". O forse è talmente arido che intorno a lui ogni sentimento, batticuore... pompino, si secca e muore? Forse è un alieno, come quelli senza volto della fantascienza dei B-movies degli anni Cinquanta, giustappunto. e rimane solo il cerchio del copriruota - nuova terra di nessuno tra veglia e sonno, tra coma e trasognata esistenza - per riemergere, solo per impersonare meglio l'uomo dei nostri tempi, la cui sedia elettrica è punizione collettiva.


Ma passo dopo passo la matassa si dipana: le potenzialità a disposizione della narrazione consentono ancora di formalizzare e acquisire quel personaggio e quella storia nelle strutture del noir, che assumono quell'andamento centrifugo sotteso all'espediente visivo che allude nel volteggiante disco volante all'emersione di coscienza dopo il gorgo, il buco nero (anche questo allusivo a un periodo cupo, come quello che stiamo attraversando, di fascismo imperante a livello mondiale, feroce e un po' ottuso, come in genere gli sbirri).

"Ero come una fantasma che cammina per strada: ero un fantasma, non vedevo nessuno e nessuno vedeva me".
Dopo questa considerazione il linguaggio utilizzato muta registro: esagera la componente meramente linguistica, sbilanciandosi sul versante della citazione del cinema del periodo che i due fratelli hanno scelto di formalizzare dopo gli anni Settanta di Dude Lebowsky e gli anni Quaranta di Broth', where are Thou?; qui la fantascienza introdotta dal disco volante sposta l'interesse innanzitutto filosofico della pellicola che accentua l'incidenza delle sentenze: "In certi ambienti si pensa che sapere è una minaccia, a volte sapere è una maledizione". Ma soprattutto queste perentorie e apodittiche affermazioni decretano un mondo nettamente diviso in maniera manichea - e svelano così il carattere degli anni del maccartismo: "Io sono un avvocato, lei un barbiere: non capisce niente" - nonostante il crimine avvenga in quella soffusa luce di ombre prive di luci, con la concitata ripresa (per lo più dal basso) della sequenza di lotta tra i due uomini, rivali per il possesso della donna, che però sembra una preda lontana, offuscata dalle buie profondità in cui avvengono i fatti perchè l'individuo finisce schiacciato dalla sua pochezza, persino quando la sua stessa mancanza di spessore potrebbe difenderlo perché inesistente e quindi inconsistente anche per subire la punizione di un ruolo che lo coglie alla sprovvista tanto che il castigo lo colpirà con un certo ritardo, che permette lo sviluppo della storia estranea alle corde del racconto poliziesco, ma che si amalgama benissimo con il linguaggio cinematografico citato dal riferimento a quel periodo hollywoodiano: la storia della ragazza pianista, per la quale si inscena un momento in cui il rallenti sancisce il definitivo salto nell'irreale, dalle posture che possono evocare Hopper al desease sofferto dal morbo di una società perduta nel principio di indeterminazione. Anche quello è un artificio come tutto il cinema dei Coen, ma sembra davvero una speranza quell'urlo liberatorio: "Forse ora tutto quanto verrà alla luce". Vana speranza per una società in cui i personaggi sono tutti ridotti a bozzetti, stereotipi, tutti ciarlatani, chiacchieroni "Questo farà cadere il velo": in fondo l'unica speranza di Ed è tornare al suo tran tran, al taglio di capelli, senza aiutanti ciarlieri, perpetuare il vuoto; in questo avvicinandosi agli intrecci di John Cheever.
E il disegno della sua vita sarà come osservare un labirinto da lontano, che significa non poter immaginare nessun altro dipanarsi alternativo e quindi non avere nessun rimpianto. L'unica percezione è di nuovo di carattere linguistico a sancire un lavoro sul codice rigoroso: "Lì potrò dire tutte quelle cose che qui non hanno parole", come a voler ribadire che ci sono situazioni extralinguistiche impronunciabili.

Adriano Boano