Nel cinema di Kassovitz il treno sembra occupare uno spazio preciso: luogo di riflessione e rivelazione, quasi che abbia il compito di accompagnarci al baratro, ma non ad un ritmo forsennato, piuttosto come il convoglio che lentamente attraversa lo schermo con stridore di freni (probabilmente permettendoci di meditare: "Fino a qui tutto bene", ma con un presentimento ...), mentre al vecchio maestro che transita sotto nella notte spunta una diabolica coda. È un movimento imprescindibile e irrevocabile come la caduta del film precedente, qui arricchita dal particolare demoniaco della coda, come a sancire la destinazione infernale del viaggio.

In questo caso lo schianto al suolo del mondo è un ragazzino che tra anni di avventure e la BMW avrebbe optato per l'auto di lusso. Una scelta che si propone come ovvio approdo di esistenze senza scopo che danno luogo alla noia programmaticamente estetizzata da Kassovitz sia qui attraverso il televisore (emblematiche le sequenze degli attori assisi su squallidi divani), sia in La Haine, pedinando i tre bighellonanti senza costrutto. Tallonati dalla mdp e dalla troupe televisiva, che trova nel controllo delle telecamere di Assassin(s) un degno corollario dello stato di polizia del primo film.

Il metodo di montaggio rimane raffinato: non lascia mai cadere del tutto il ritmo del film, anche quando il regista ha bisogno di rendere palpabile la noia ed allora si insinuano sequenze uniche tra le pieghe della greve lentezza, come il passaggio dalle luci stroboscopiche della discoteca all'ospedale in una medesima concitata sequenza senza soluzione di continuità. Benché la tensione in La Haine fosse maggiore: lo si evince facilmente ponendo a confronto le due sequenze che vedono lo stresso Kassovitz protagonista di una sorta di roulette cinese nei diversi film.