Più o meno da tutti questi esempi risulta abbastanza chiaro che siamo di fronte a un cinema in cui la sceneggiatura non dico che abbia scarsa importanza, ma sicuramente non sovrasta gli altri codici, non c’impone alla realizzazione complessiva. Non a caso grandi latitanti da questo elenco sono i film italiani (l’ultimo film che potrebbe a buon diritto comparirvi, forse è il Ludwig montato postumo di Visconti). Là dove, nel cinema più o meno classico, il personaggio era calato negli eventi e ben determinato da essi (che si tratti di western oppure della coppia Aurenche-Bost a copione rigido, oppure di tanto cinema italiano), e tenendo conto delle meravigliose eccezioni a tutti i classicismi – Renoir, Ford, Hitchcock); là dove, ancora, nel periodo moderno per eccellenza (fra ’50 e ’60) il personaggio era spesso e volentieri contrapposto, in gioco dialettico, a una struttura narrativa che veniva violentata, ribaltata, esibita, smascherata e rovesciata dall’interno (ci basta il nome di Godard?), direi che negli ’80 il personaggio si perde: cerca di vivere la proprio avventura, magari anche "impegnata", ma vi si perde; scivola progressivamente nel gioco, tutto connotativo, del proprio rapporto con l’ambiente circostante, esibendo il proprio modo e disagio di starci, ma anche la propria inadeguatezza; anzi, confessando la consapevolezza che la propria sconfitta sul piano della vicenda corrisponde a un più elevato grado di adesione al "clima", al paesaggio. Curioso: elementi di neo-romanticismo in un’estetica per molti versi neo-barocca e manierista.