A questo punto buttiamo lì una riflessione che potrebbe diventare un nuovo stimolo: la questione della incomunicabilità non si scopre con gli ’80; è stata la questione principale del cinema impegnato dei ’60 e per un pezzo di ’70, da Bergman a Antonioni stesso, abbiamo visto decine di personaggi dilaniarsi nelle secche del "perché non ci capiamo quando ci parliamo" E giù a rodersi (giustamente, perché il fatto costituiva problema, come filosofia e narrativa di ispirazione esistenzialista avevano celebrato fin dai ’50) e a tormentarsi in campo/controcampo fino al televisivo Scene da un matrimonio. Il fatto è che (così almeno mi pare) il mondo degli ’80 ha accentuato la problematica, portandola anche oltre il livello dei singoli individui (marito/moglie; sorelle – Sussurri e grida –; paziente/infermiera – Persona) a quello dei gruppi e financo delle etnie, capendo in anticipo quello che sarebbe andato a capitare in Europa entro pochi anni. Blade Runner vive anche dello scorrere affiancati di diversi gruppi etnici e idiomi. Il punto d’imballo, l’involuzione, ma anche certo il fascino, di questo cinema (e di questi benedetti ’80) è che la non-comunicazione è sostanzialmente accettata, esibita, denunciata sì ma fatalisticamente, lamentata come ineluttabile, e raramente analizzata, come invece accadeva (forse all’eccesso) nei ’60-’70.

Comunque, tornando al nostro personaggio in crisi, poco risolutore, tendenzialmente sconfitto, poco capace o poco incline a muovere le acque della narrazione, cerca letteralmente aiuto nel profilmico, nella mdp, anela al fatto che il découpage si organizzi in fasi di stasi e contemplazione. Nell’azione vera e propria egli si perderebbe, come il tennista portato all’attacco e al gioco di volo, che se si lascia imprigionare dalla ragnatela di scambi da fondo campo finisce per sbagliare per primo. Il terreno preferenziale del nostro cavaliere molto solitario è quello dello "stop lirico", della pausa contemplativa.