Una figura, dunque, quella che permea molti film che ci hanno coinvolto negli anni ’80, una porzione di film che si manifesta come riconoscibile da un film all’altro, e che trova legittimazione, come oggetto di attenzione (dire "oggetto" di studio mi sembra presuntuoso) nell’intuizione di Serge Daney secondo la quale il cinema in fondo vive di istanti privilegiati, di momenti isolati che possono dare senso al tutto: "Non dimenticare che nel suo fondo popolare, il cinema non è un’arte fatta "inquadratura per inquadratura" ma un’alternanza tra momenti forti e momenti deboli", un’arte popolare in cui "il tessuto connettivo non dà fastidio, in cui si sa che intorno ai "pezzi di bravura" occorre qualcosa di più tenero": un materiale disomogeneo che proprio dalla disomogeneità trae vantaggio, che ci cattura con una sequenza, che si permette di salvare una prosaicità diffusa lungo tutto il racconto grazie alla carrellata (con degna colonna sonora, magari) che innalza il livello della connotazione a quote mai viste. Non dimentichiamo il dato tecnologico degli ’80: la diffusione del videoregistratore ha permesso proprio (e lo permette tuttora) di vedersi e rivedersi, e studiarsi fino all’orgasmo le sequenze privilegiate; come i passaggi più significativi sul CD. Chi non lo fa (anche da adulto, se mai il cinefilo diventa adulto), scagli la prima pietra.

E chi c’è in questa figura? C’è, il più delle volte, ma non sempre, un personaggio (non obbligatoriamente un protagonista) che, nel gorgo di vicende più o meno lineari, più o meno quotidiane, drammatiche o grottesche, si autoannulla o viene suicidato nel paesaggio. Da portatore di istanze narrative diventa, in maniera bivalente, soggetto di
A- interiorità (il paesaggio come riflesso del suo paesaggio dell’anima); e
B- complemento del paesaggio stesso a beneficio di chi guarda. Interno/esterno; titolare di una soggettiva oppure elemento che ce la fa riconoscere come "falsa soggettiva". Una figura, dunque, in cui il personaggio si annulla nelle risorse creative e linguistiche dell’autore, ma anche nella mdp, nel montaggio, nell’uso dei diversi campi con corredo di uso del colore, della colonna sonora, della musica, di tutti i codici, insomma, più o meno specifici. Un momento di "stasi narrativa", che Bettetini individuava, per esempio, negli allargamenti di campo e su cui Kubrick ha costruito addirittura un intero film, il migliore, Barry Lyndon. Non che tutto ciò, naturalmente, sia una novità dal punto di vista della procedura stilistica: pensiamo solo all’identificazione autore/mdp in molto cinema moderno (dunque anni ’60 per intenderci), per dirne una l’Antonioni di Deserto rosso. Ma ho l’impressione che, negli autori degli ’80, questo fenomeno raggiunge livelli notevoli e che al tempo stesso la procedura ben si sposi a una marcata caratteristica di solitudine/impotenza dei personaggi.