Non è quello che capita a Travis nel finale di Paris, Texas, dopo che ha riconsegnato Hunter alla madre in un albergo, e noi lo vediamo perdersi in luci d’auto e illuminazioni notturne incredibili sulle svisate di Ry Cooder?
Non è la consapevolezza di avere già perso i soldi del produttore a muovere Patrick Bauchau, regista dello Stato delle cose, in un ricercatissimo piano in cui ci sono solo la luna e l’aereo che va su in verticale? E non è un annuncio di ineluttabile sconfitta tutta la lunga sequenza dei titoli di testa di Toro scatenato, con De Niro/ La Motta a danzare al ralenti sul ring, sulle note di Cavalleria rusticana?

Dire: interno/esterno rispetto a questi personaggi; dire che sono "soggetti di soggettive" ma possono diventare facilmente "oggetti di false soggettive"; dire che è il paesaggio intorno a loro a tirare fuori i loro caratteri e il loro destino significa (di nuovo) parlare di comunicabilità (non a caso rifiuto di dire "comunicazione", che è concetto diverso, e lascio l’altro termine, "incomunicabilità" all’epoca in cui, come detto, era più di moda), di possibilità di rendere partecipi gli altri alle proprie – giuste, sbagliate o illusorie – aspirazioni, significa ammettere il ripiegamento su se stessi e l’implosione di un soggetto che sta per rassegnarsi a non aspirare più a modificare un bel nulla della realtà. Una sorta di autismo lirico. È probabilmente la fine dell’utopia, lo sguardo malinconico dell’impossibilità di fare; la caduta in un privato che fa male non perché è rinuncia (non lo è), ma semplicemente perché il mio privato non è il tuo e io soffro che tu non partecipi al mio (e in ogni caso soffro un po’ meno se io non capisco il tuo: in epoca di riflusso vengono fuori i peggiori modi di porsi nei confronti degli altri, gli egoismi prevalgono sugli slanci).