"Maledetti pedofili, che uccidono i bambini. Ma chi si credono di essere: militari israeliani?".
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Questo argomento si lega al dubbio che è serpeggiato nella redazione di cinemah riguardo alla possibilità di un fermo di fotogramma sostanziale all�essenza cinetica del mezzo audiovisivo: cioè il cinema è ancora espressione autentica di temporalità?
In Pezzella (Estetica del cinema, Il Mulino) si legge:
"Se la fotografia eternizza il gesto, nel momento in cui lo afferma
irrevocabilmente come passato, il cinema cerca di affermarlo come presente,
nel momento in cui la sua eternità pare fatalmente sfuggire.[�]
[Nel cinema] giunge a espressione l'ambivalenza del tempo.
Nell'espressione mobile del gesto, il cinema mostra l'ambiguità
dell'attimo, in cui l'azione presente resta sospesa tra passato e futuro e
quasi tende ad arrestarsi..."
Solo il piano rende quindi conto di questo prelievo di realtà che comprende spazio e tempo, essere e divenire. Il fotogramma, fra l'altro, non ci consente un'analisi specifica della concatenazione filmica, né quindi di una parte preponderante della produzione di senso, mentre il piano è un'unità di linguaggio, ovviamente un'unità che cambia di volta in volta.
L'immagine del palestinese colpisce l�immaginario per il suo innaturale modo di muovere la testa nell'agonia: la fotografia sui giornali non produce lo stesso effetto e dunque confermerebbe come nel linguaggio audiovisivo l'elemento minimo è la sequenza in movimento: per quanto breve sia il piano soppianta l'inquadratura, o forse è il movimento intrinseco all'"immagine in movimento" (che forse è un aspetto di quel piano), che rende quella sequenza insopportabile, non per la sua verosimiglianza, ma perché coglie gli aspetti meno naturali e li esaspera, diventando racconto e non mera registrazione. La stessa cosa vale per i filmini dei ragazzini violentati. Sono immagini prive di filtro, ma non nel senso che vorrebbe dare un'ipocrita e pelosa censura: manca il filtro dell'analisi logica (non in senso grammaticale), sono serie di inquadrature in movimento che colpiscono direttamente la sensibilità, provocano immediate reazioni, rimuovono ogni possibile commento (ma noi, più sensibili o forse solo fuori tempo, avevamo avuto lo stesso moto di rabbia di fronte ad un treno inquadrato dalla bomba intelligente o dai puntini verdi di Baghdad) e si impongono con la loro evidenza. Non sono solo simulacri di realtà in movimento: sono bagaglio personale di ciascun fruitore di immagini in movimento, costume che accomuna tutti, perché ciascuno vede le stesse immagini ed è invitato a crearsi un�opinione che deve coincidere con quella fabbricata nel momento in cui si decide di mostrare - e ancora di più quando si decide di non mostrare - certe immagini.
E dunque il mondo dell�assoluta visibilità è un universo della prossemica o della temporalità? E soprattutto: quali spazi ci rimangono per la riflessione e l�interpretazione?
Allora per contrasto comincia ad andare nella giusta casella il tassello del puzzle che da qualche tempo era rimasto in mano e non trovava una collocazione: è questo un tarlo che comincia a rodere dopo la visione di High Fidelity. Avete notato lo sproposito di pellicole che adottano l'espediente di far parlare in macchina il protagonista negli ultimi tempi: è attribuibile al bisogno di trovare scorciatoie per analizzare la realtà messa in scena? Potrebbe passare per un'evoluzione della complicità (ad esempio i film di Woody Allen) che si ricercava attraverso la voice over che introduceva, accompagnava e soprattutto commentava salacemente quanto le immagini documentavano: era il famoso filtro che consentiva di "sopportare" qualunque manipolazione, perché indirizzava, dava segnali di quale fosse la fonte da cui si prendevano le mosse per mettere in fila quelle immagini per affrancarle dal loro stato immobile di inquadrature e dar loro una forma di movimento, conferire loro un�aura di piano - anche nel senso progettuale - che apporterebbe significato, falsificando e simulando (per riprendere due termini cari al postmodernismo).
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Non a caso il processo si avvicina molto a quello della psicanalisi (o del sacramento della confessione, che è la versione "confessionale" della prassi freudiana). Addirittura in Entropy si svela spudoratamente il giochino (come sempre quando c'entra di riffa o di raffa lo "scalcinato con il cervello fritto" Bono il filosofeggiamento d'accatto rivela quello che in altri casi sarebbe un meccanismo più sofisticato e qui come in Wenders invece diventa bignami di filosofia U2, dove non ci viene risparmiata nemmeno la tirata sull'aborto, ma tant'è: sono irlandesi): ci sono i fermi di
fotogramma laddove normalmente lo spettatore avrebbe il momento deputato alla sua riflessione, che viene sottratta dall'autore-attore, reificato nel congelamento, ma assurto a nuova autorevolezza di soggetto filosofico nella parte di commento e analisi premasticata per il pubblico in una forma gradevole e colta.
Il film poi è accattivante e aggiunge un sano gusto eclettico accentuato dal film nel film, dove ci si può sbizzarrire con il noir anni '40, ma anche questo è un aspetto che duplica lo specchio, conferendo un�ulteriore autorevolezza al personaggio, poiché a sua volta è un regista e ci mostra senza filtri sullo schermo gigante le immagini del suo matrimonio al concerto degli U2; anche il linguaggio da clip risulta essere autentico (Joanou è responsabile davvero dei clip e del film concerto della band britannica), proprio grazie alla sua artificiosità: il regista ha quella formazione e dunque è ovvio che le situazioni la duplichino confondendo la realtà con la sua riproduzione, la divisione dello schermo in otto spazi comunicanti telefonicamente tra loro, moltiplicano l'ossessione telefonica (che porta a giustiziare opportunamente i cellulari), facendo propria l'isteria di ciascuno di noi quando squilla un telefono, o quando ci sentiamo perseguitati dalla reperibilità ubiqua; ma anche questa è spiegabile con la divisione iniziale tra piano e immagine, sempre più a detrimento dell�efficacia di quest�ultima (Robert Capa avrebbe visto tempi duri, se non si fosse affidato a Spielberg: i suoi scatti non avrebbero intaccato alcuna sensibilità, senza un piano all�interno del quale inserirli come in Saving Private Ryan, perché manca la capacità di collocarli in un discorso ampio quando viene meno il movimento): infatti da Hallo Denise in poi si assiste a periodiche tirate sull�incomunicabilità telefonica ribaltata nell�impossibilità di viverre una realtà palpabile. Persino la struttura iniziale tipo storyboard ha qualcosa che riconduce alla realtà dei realizzatori e quindi l'accentuazione degli aspetti metalinguistici non fa altro che circuire ulteriormente lo spettatore infilandolo in quel mondo, magari cercando facili identificazioni attraverso la citazione di Ed Wood o con la naturalezza della camera a mano sulla passeggiata con Bono. |
Appunto una facilità di sguardo moltiplicata dai movimenti così studiati da apparire naturali o frutto di allusioni ironiche ai linguaggi del cinema, che però sono parte della realtà comune e quindi acuiscono il senso di appartenenza. Apprezziamo che pensi a noi ("incredibile" dice in macchina) mentre la top model se lo sta trombando, siamo commossi che si ricordi di noi in un momento come quello, ma anche questo dovrebbe essere un segnale della "non credibilità" della situazione che si sta creando per acuire il senso di realtà paradossalmente utilizzando set cinematografici, video clip, appartamenti del regista ai giorni nostri che danno su vicoli e sfondi ricavati dal noir che sta girando. Poi addirittura prosegue, avvertendoci che non è stato così veloce come i tempi filmici richiedono, ma "comunque lo sapete e quindi è meglio abbreviare un po'". L'esplicitazione dell'ellissi la elide: non è più un elemento sintattico del cinema, ma una parte di vita che non esiste più perché non sta nei tempi filmici (un po' quello che avveniva, al contrario, in Purple Rose of Cairo: ciò che non è filmico veniva scoperto dall'attore passato da questa parte) e noi la assumiamo come pleonastica, poiché il nostro amico ci ha detto - direttamente a noi - che capisce che mancherebbe un tassello, ma ci siamo messi d'accordo per eliminarlo, perché era noioso. Solo che noi non abbiamo potuto decidere se lo era davvero: non siamo di fronte all�Empire State Building di Snow o ai fluviali film di Warhol che registravano porzioni di realtà: anche lo sbandierato Grande Fratello è fatto da attori che prendono ordini dall�esterno via radio e quindi non ci è concesso mai di assistere a ritagli di vita in diretta. Tutto è premasticato, digerito e per quanto sia trasgressivo o presentato come rivoluzionario, non può adempiere ai suoi compiti eversivi, poiché già in partenza è inserito in canali istituzionali e adotta un linguaggio ufficiale senza guizzi e studiato in modo che non dia adito a elucubrazioni personali.
Da tutto questo consegue un restringimento dello spazio compreso tra ciò che l'opera dice e ciò che lascia a noi scoprire, ma quello che è più interessante è che lo fa portando alle estreme conseguenze il nostro colloquio con l'opera ed il suo rapporto con il vissuto di ciascuno - che si poteva porre un tempo in alternativa alla prassi linguistica, salvo poi verificare che i problemi teorici sono un altro modo per individuare il rapporto tra ciò che l'opera è e ciò che sceglie di non divenire: insomma la forma è sostanza al punto che sembra si instauri davvero questo dialogo. Peccato che sia un soliloquio in cui noi dobbiamo delegare l'autore a rappresentare la controparte, cioè noi stessi; e lui lo fa ben volentieri infarcendo il film di immaginario comune, piacevole e per nulla dozzinale (e quindi blandendoci, poiché ci fa credere che abbiamo realmente riferimenti così raffinati). D'altro canto egli sta raccontando una storia il più possibile condivisibile e dinamica, totalmente nostra (che sia un sogno rimane solo la top-model a testimoniarlo, ma tanto lo lascia e quindi torna plausibile), mentre nella prassi documentaria del parlato in macchina, questo è normalmente una sorta di tranche de vie personale - dai personaggi di Segre ai contadini di Soldati, non ancora padanizzati, ma carichi di una cultura in dissoluzione e ormai cancellata - sfruttata per comunicare una "storia". Conferma questa differenza il fatto che sia High Fidelity, sia Entropy al di là della struttura e del codice narrano storielle di banali amorazzi e non la Storia.
C'è da valutare da ultimo che spesso questi racconti - che esplicitamente si rivolgono direttamente a noi, ci chiamano a testimoniare e a rendere esistente il racconto per il solo fatto che ci viene raccontato - non possono darsi se non in flashback (dai Good Fellows di Scorsese a questo Entropy). Sono il risultato del racconto di episodi da rimasticare per trovare una soluzione soddisfacente a un turbamento che nasce dalla domanda: "Dove ho sbagliato? ", la truffa sta nel fatto che loro sanno già darsi (e darci) una risposta e ci conducono laddove c'è il disvelamento preparato. E scavando al di sotto della confezione appare invariabilmente il cliché stantio.