Editoriale
6/6/2002
Bloody Sunday (e altri...) + Solea
1972-2002
"La polizia di stato è assassina"
compagno dei cobas di Taranto arrestato per questa sola asserzione
confermata una volta di più il 20 luglio 2001
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regia.......................... Paul Greengrass
sceneggiatura ............ Paul Greengrass da Eyewitness Bloody sunday di Don Mullan
fotografia................... Ivan Strasbourg,
montaggio.................. Dominic Muldoon,
interpreti...................James Nesbitt, Tim Pigott-Smith, Kathy Kiera Clark
produzione................ Granada Film, Hell's kitchen
distribuzione............ Mikado
UK - Irlanda, 2001, 107'
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Premessa
Come forse vi siete accorti nella home page di cinemah campeggia dal 16 aprile (più di 50 giorni) l'immagine di tre tostissimi operai ejzenstejniani. Sono lì a fare la guardia, un memento per tutti quei venduti che hanno scippato a tre milioni di persone lo sciopero generale, dimenticandosi per 50 giorni di far seguire altre iniziative per rimangiarsi il piatto di lenticchie ormai vuoto avendo svenduto tutto; ma sono anche una presenza inquietante, posta a ricordare come ogni volta che i "pompieri" si sono frapposti tra padroni e lavoratori, imponendo i loro tempi e il perseguimento delle concertazioni, il fallimento delle lotte è sempre stato inevitabile. Noi abbiamo voluto lasciarli in evidenza per vedere fino a quando il loro muto richiamo sarebbe stato ignorato: quei 50 giorni di testimonianza silente dei tre compagni sono macigni scagliati contro qualsiasi leader sindacale o della sinistra si voglia accreditare come organizzatore della lotta. Conosciamo le centrali sindacali e ce lo aspettavamo già il 16 aprile: per questo abbiamo mantenuto quelle immagini attive, sentinelle che dagli anni venti, dal biennio rosso per quel che riguarda l'Italia, attestano la possibilità di non recedere dalle rivendicazioni.
Contingenza
Ora è venuto il momento di rianimare quei tre operai. Ora, che la censura si ripropone uguale - per chi se la ricorda: non ci si dovrebbe stupire di modi consolidati da sempre per ottenere il controllo delle menti, soprattutto in periodo di mondiali - a quella che negli anni sessanta e settanta copriva sotto una coltre di bugie del monopolio dell'informazione (gestita già allora da orribili reazionari come Gustavo "Belva" al gr2, allora democristo ora nazionalalleato, su cui si ironizzava un tempo riguardo alla prestazione di Francesco Lorusso che aveva saltato talmente alto da riuscire a prendere di testa la pallottola sparata in alto dal Placanica della situazione: i servi assassini non mancano mai e si chiamano tutti allo stesso modo, sbirri) quelle che erano le rivendicazioni dei Movimenti alternativi al sistema, sempre facilmente criminalizzati. Ora, che Napoli - sconciata a marzo 2001 dal centro sinistra di Bianco - e Genova - ferita mortalmente nel luglio successivo da Scajola - hanno risvegliato gli istinti primordiali dei funzionari di polizia scatenati nella repressione, strettamente correlata ai prevedibili malumori di quella parte della piazza che si rende conto della variazione di strategia delle forze conservatrici, il cui obiettivo stavolta non è solo instaurare un regime fascista (quello è già in funzione da tempo), baluardo contro lotte operaie ancora inesistenti e di retroguardia, ma fare strame dei principi di eguaglianza, cancellare qualunque habeas corpus e imporre l'assolutismo che le coreografie di Pratica di mare stentano a nascondere sotto gli errori tra mito e storia marchianamente pronunciati dall'Intrattenitore. Ora, che lo stato di polizia è condizione inevitabile per imporre anche iconograficamente i nuovi rapporti che virano verso il conclamato sovrano/suddito, sostituto dell'ipocrisia - imposta dall'insurrezione partigiana - di falsi rappresentanti di cittadini mai stati realmente liberi, ma solo sudditi. Ora, che un cobas di Taranto è perseguito e arrestato per una frase assolutamente ineccepibile e condivisibile come "La polizia di stato è assassina", saldando il discorso sindacale con gli assetti polizieschi.
testimonianza 1: il sindacato
Aveva conosciuto Bruno nel 1988. Il giornale aveva affidato a Babette la sua prima inchiesta importante. Vent'anni dopo il Maggio'68, che fine hanno fatto i militanti? Giovane filosofo anarchico, Bruno si era battuto sulle barricate del Quartiere latino, a Parigi. Corri compagno, il vecchio mondo ti insegue era stato il suo unico slogan. Aveva corso, lanciando sassi e bombe molotov sui CRS. Aveva corso sotto i gas lacrimogeni, con i CRS alle calcagna. Aveva corso in ogni direzione, a maggio, a giugno, soltanto per non essere raggiunto dalla felicità del vecchio mondo, i sogni del vecchio mondo, la morale del vecchio mondo, la stupidità e la stronzaggine del vecchio mondo. Quando i sindacati firmarono gli accordi di Grenelle, gli operai ripresero la strada della fabbrica e gli studenti quella dell'università, Bruno capì di non aver corso abbastanza. Né lui né tutta la sua generazione. Il vecchio mondo li aveva raggiunti. I soldi diventavano sogno e morale. L'unica gioia della vita. Il vecchio mondo dava il via a una nuova era, la miseria umana.
Jean-Claude Izzo, Solea, e/o, Roma 2001, pp. 11-12
testimonianza 2: lo stato di polizia
"La pratica dei controlli sulla base dei tratti somatici è banale " avevo risposto alla sua prima domanda. "È proprio questa, tra l'altro, che alimenta la rivolta di tutta una fetta della gioventù. Quella che vive le peggiori difficoltà sociali. I comportamenti vessatori della polizia legittimano e sostengono atteggiamenti delinquenziali. Aiutano a creare le fondamenta di uno stato di rivolta e di una perdita di punti di riferimento. Alcuni giovani sviluppano un sentimento di onnipotenza che li conduce a rifiutare ogni autorità e a volere imporre la loro legge nella propria cité. La polizia, ai loro occhi, è uno dei sintomi di questa autorità. Ma, per opporsi efficacemente alla delinquenza, i poliziotti devono avere un comportamento irreprensibile. il rap è diventato un modo di espressione per i giovani delle cités, perché denuncia, spesso, comportamenti umilianti da parte della polizia, e mostra che siamo lontani dall'obiettivo". I miei capi non avevano affatto apprezzato la mia sparata. Ma non avevano aperto bocca. conoscevano il mio punto di vista. E proprio per questo mi avevano nominato a capo delle Squadre di sorveglianza dei Settori, nei quartieri nord di Marsiglia. Nel giro di poco tempo, c'erano state due madornali cantonate della polizia. Lahaouri Ben Mohamed, un giovane di diciassette anni, era rimasto ucciso durante un banale controllo d'identità. Le cités erano in rivolta. Poi, alcuni mesi dopo, fu la volta di un altro giovane, Christian Dovero, il figlio di un tassista. E, in questo caso, ci furono sommosse in tutta la città. "Un francese, merda!" aveva gridato il mio capo. Diventò urgente ristabilire calma e serenità. Ancor prima dell'intervento degli ufficiali dell'I.G.P.N., la polizia delle polizie. Usare altri metodi, avere nuovi obiettivi, è di questo che confabularono alla prefettura di polizia. e allora mi tirarono fuori dal cappello. L'uomo miracolo. Mi ci volle del tempo per capire che ero solo una marionetta da manovrare in attesa di tornare ai buoni vecchi metodi. Umiliazioni, facce spaccate, pestaggi. Tutto ciò che poteva soddisfare coloro che pretendevano maggiore sicurezza. Oggi eravamo appunto tornati ai buoni vecchi metodi. Con il venti per cento degli effettivi che votava Fronte nazionale. La situazione, nei quartieri nord, era di nuovo tesa. Ogni giorno di più. Bastava aprire il giornale. Scuole saccheggiate a Saint-André, aggressioni di guardie mediche notturne a La Savine, o di impiegati comunali a La Castellane, autisti di autobus minacciati durante il turno di notte, e, in sottofondo, la proliferazione nelle cités dello spaccio dell'eroina, del crack e di tutte quelle schifezze che i ragazzini sniffavano. Riducendoli a pezzi. "I due flagelli di Marsiglia" gridavano i cantanti marsigliesi del gruppo IAM, "sono l'ero e il Fronte nazionale". Tutti quelli che frequentavano i giovani sentivano che l'esplosione era vicina. Avevo dato le dimissioni, pur sapendo che non era una soluzione. La polizia non poteva cambiare da un giorno all'altro, né a Marsiglia né altrove. Essere sbirro, che lo si voglia o no, significa appartenere a una storia. La retata degli ebrei al Vel' d'Hiv', il massacro degli algerini, gettati nella Senna, nell'ottobre '61. Tutte queste cose. Riconosciute tardi e non ufficialmente. Tutte queste cose influivano sui comportamenti quotidiani di molti poliziotti, quando avevano a che fare con giovani provenienti dal mondo dell'immigrazione.
Jean-Claude Izzo, Solea, e/o, Roma 2001, pp. 42-44
Fabio Montale si era dimesso, perché non è un vero sbirro, ma un personaggio anarcoide inventato da Izzo, invece anche il paracadutista "buono" del film di Greengrass alla fine omertoso, colpevole quanto gli altri assassini, non parla durante l'inchiesta e il carabiniere Placanica ripete come un ventriloquo le veline inventate dai suoi superiori (un remake dell'assassinio di Francesco Lorusso, marzo '77: anche lui aveva stabilito un nuovo record di salto in alto, per prendere di testa la pallottola sparata in aria)
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E allora Bloody Sunday ha il merito di gettare la macchina a mano dentro la mattanza di Genova, per farne uscire tutte le manovre e i sotterfugi, l'avvio di una campagna annosa contro qualunque forma di dissenso, che potrebbe convogliare il malcontento della maggioranza. Inserisce anche una mdp amatoriale all'interno della manifestazione resa famosa dalla retorica U2 (fortunatamente relegata nei titoli di coda), in questo modo legittima la concitazione e la partecipazione ai fatti ("Riprendi tutto! Parti da qui e fai una panoramica": accenno metalinguistico sgretolato nella pagina di storia e fuso con gli eventi della fiction, ma anche con la capacità di calibrare i tempi del racconto e dell'alternanza delle sequenze: una danza cadenzata su un ritmo sempre più veloce, fino all'urlo silenzioso di Cooper al cospetto della morte di un anziano innocente, mentre i parà continuano a autosuggestionarsi con nemici inventati), ma allude anche alla possibilità di documentare dal basso... o da dietro, come nel caso della falsa soggettiva del leader che ha fatto dire a una spettatrice appassionata e cinefila: "lo sguardo attonito del regista che diventa lo sguardo attonito dei protagonisti che diventa lo sguardo attonito dello spettatore; un coro gigantesco di :«no, non è possibile! sta accadendo ma non ha senso ...» che esce dagli occhi più che dalle labbra o dai gesti. Complice credo la luce gelida e umida che riveste le immagini; freddo dentro e fuori, sigillo di stupore, idiozia e morte. Penso che sia vero: quando la tragedia inizia non ci si puù credere ed è forse anche per questo che le lacrime fanno così fatica a trovare un varco tra gli occhi sbarrati. È questo sguardo che ho letto nelle immagini di Napoli, Genova, New York, Jenin, Kabul ... la lista prosegue e noi continuiamo a stupirci" (paola D').
C'è poi chi - forse giustamente più sensibile agli aspetti legati alla rivendicazione dei diritti e alla soluzione dei bisogni che alla denuncia della repressione - accusa il film di essere improntato a uno schematismo manicheo, volto a isolare forme più radicali e senza la preclusione verso manifestazioni violente di rivendicazione e difesa, dividendo trasversalmente gli schieramenti tra buoni e cattivi: il poliziotto buono (transfuga dal piccolo schermo, che ne ammannisce da decenni quotidiani nuovi esempi che farebbe impallidire Pasolini), mostrato non come l'"altro" del gioco di ruoli nel tipico poliziesco hollywoodiano, ma perché sinceramente preoccupato per la sua gente; e in effetti la sequenza relativa alla telefonata, nell'infernale costante squillo di apparecchi, fa pensare dapprima a sospette collusioni tra rappresentante pacifista e forze di polizia, un leader moderato che si prodiga per evitare incidenti, e poi a un'edulcorazione degli effettivi rapporti. Invece i ragazzi più radicali, che non accettano l'occupazione nazista delle forze di sua maestà (quella del "fascist regime" dei Sex Pistols, che festeggia il giubileo in questi giorni ed è responsabile di guerre coloniali come Las Malvinas e dell'orrore sociale thatcheriano e della morte di Bobby Sands) risultano semplicemente ingenui che vengono attratti nella trappola ordita dai parà, gettandosi poi acriticamente nelle braccia dell'Ira, in procinto di organizzarsi, ma nelle scarne immagini dedicatele da Greengrass sembra composta da ridicoli personaggi da fumetto di Alan Ford. La scelta del regista di mostrarci i ragazzi nella loro misera quotidianità, nelle loro adesioni entusiaste alle lotte, l'insistenza dei piani ravvicinati sull'inesistenza di sbocchi futuri è la sua risposta: quelle giovani esistenze urlano senz'altro vendetta, fantastici in questo senso i ripetuti confronti ripresi in campo e controcampo: quello che vede da un lato il prete a tutto schermo e dall'altro il giovane, che poi gli assassini imbottiranno di tritolo per legittimare, come Sharon, la loro repressione. Forse la posizione del regista tiene a sottolineare la loro debolezza nell'elaborazione di strategie politiche, però indubbiamente a loro va la sua simpatia, e anche nella sequenza finale questa non viene meno. Insomma, nonostante durante gli scontri prenda le distanze dai pochi "fanatici", alla fine non risulta una trappola l'adesione all'Ira, ma l'unica scelta possibile a cui li ha spinti il fanatismo coloniale dei macellai paracadutisti, di cui la concitazione è ripresa in modo angosciante e contemporaneamente riesce a lasciare uno spazio all'interno della inquadratura nel quale si rifugia lo spettatore ad assistere attonito, al coperto come i dimostranti, alla ricerca di uno spuntone dietro al quale coprirsi, finché si inorridisce di fronte all'uccisione a freddo dell'anziano, una figura nobile e carismatica per quella che risulta sempre di più in quelle sequenze una comunità coesa e resa più unita dall'occupazione (in particolare nella sequenza dell'ospedale, nella pietosa conta dei morti: lì l'odio traspare nell'aver mantenuto i soldati con le armi in mezzo alle vittime. Altre scene che mettono in relazione le tante operazioni di polizia in ogni parte del mondo); la somma di ciascuno di questi sentimenti - ognuno ripreso con un'attenzione visiva particolare: il campo-controcampo, la falsa soggettiva, ma anche i campi lunghi sempre attenti a rappresentare il collettivo come un unica massa, che però si può dividere, può lasciarsi pilotare, può esprimere volontà e individuare obiettivi autonomi, i primi piani come unici momenti di riflessione nel bailamme di macchina a mano e montaggi paralleli (il montaggio è la sezione dove è più rimarcata la novità di stile di questo docufiction che frammenta e interrompe per rilanciare: infatti attraverso questo ripetuto uso che alterna i luoghi dell'azione riesce a farne un unico spazio drammatico, quasi un'arena da tragedia greca, dove addirittura si lasciano le battute inconcluse, uno spazio vuoto con fotogramma scuro per inseguire un attacco, sempre o quasi sul movimento e su una nuova battuta che però consente di descrivere esattamente la situazione come è stata ordita, molto più evidente di tutte le inchieste in corso a Genova o Napoli); ma con un'unica tensione espressa dal ritmo - e si direbbe che l'ingresso di tanti giovani consapevoli nell'organizzazione lascia sperare che in seguito l'Ira abbia potuto contare su persone motivate ma anche equilibrate. Il nemico inventato dai parà diventa minaccia reale, creata dal loro fanatismo.
È vero che l'organizzazione militare anti-inglese è tratteggiata in modo bozzettistico e i rilievi di cui abbiamo dato conto finora sono tutti corretti: il film è sbilanciato verso un pacifismo che risulta sospetto dopo quello che documenta crudamente (e che le eveline da Jenin ribadiscono almeno quanto le cariche di Genova: gli sbirri sono uguali a qualsiasi latitudine. Tutti), poiché non offre valide alternative. Nasconde questa sensazione dietro una ricostruzione storica probabilmente attenta e corretta del momento storico con un movimento pacifista ancora molto forte (però le informazioni che arrivarono all'epoca in assenza di Indymedia e Information Guerrilla non permisero una capillare presa di coscienza dell'entità degli eventi), che appare consapevole della china intrapresa, ma non si aspetta un cambiamento di strategia simile ("Non può succeder niente. È una marcia pacifica per i nostri diritti") da parte dell'Impero. E qui più che in altri film si evidenzia quello stesso meccanismo posto in essere attualmente dagli innumerevoli regimi polizieschi, che abdicano definitivamente alla parvenza di difesa dei cittadini per diventare provocatori difensori esclusivamente dell'interesse dei potenti: ovvero lo scarto tra sudditi e cittadini messo in atto nel mondo del lavoro. Il climax del film conduce a una partecipazione tale da rendere intollerabile qualsiasi "segnale forte" dei funzionari nella centrale operativa con mappe e modi alla Fini (presente a Genova negli stessi panni: "Abbiamo fatto fronte a una situazione complessa. Un comportamento assennato e di grande responsabilità", dice la pellicola, imitando Scajola), tradotti dalla truppa esaltata con "Bisogna colpire per primi: sono tutti sovversivi di merda". In questo è assimilabile ai tanti lavori prodotti sui fatti di luglio a Genova, purtroppo in questo senso è vero che il punto di vista somiglia pericolosamente più a quello di Ferrario che ai prodotti ((i)) o di Giusti. Questo perché Greengrass vuole risultare credibile o accettabile da tutto il pubblico per denunciare il piano fascista di provocazione e questo può spiegare la componente fiction - per fortuna ridotta a pochissimi controluce e a lancinanti trilli di telefono, ossessivi, prolungati, a raffica (una comunicazione impossibile, nonostante i ripetuti richiami dell'apparecchio, perché da una parte si è deciso che si sfrutta lo scontro per fare una strage e dare una lezione destinata a rimanere impunita), utili a umanizzare anche Cooper ("Se un giorno potessimo essere normali" è negato immediatamente da una nuova intrusione del telefono), non solo i giovani - attraverso la quale il regista ottiene di mettere in scena un proprio alter ego con la faccia pulita, attraverso il quale sottrarre spazi alle bugie dei Placanica: insomma si può immaginare che il regista preferisca prendere distanze evidenti da qualsiasi posizione in qualche modo accusabile di metodi criminalizzabili per rendere più forte la denuncia della repressione, per impedire che si potesse impugnare la condanna dell'operato dalle forze dell' "ordine" e di quanto fosse premeditata, pianificata e perseguita da impuniti responsabili ad alto livello, che soffiavano sul fuoco non ancora acceso ("Ora piovono pietre, ma se l'occupazione prosegue, domani chissà cosa piove") con lo scopo beluino di reprimere.
E il pezzo di bravura se lo riserva per ultimo: quello che muove all'indignazione lo spettatore. il parà che non parla, non denuncia: l'inquadratura insiste sul profilo (durante tutto il film la sua faccia attonita era sempre ripresa in primo piano: testimone, chiamato a essere memoria della sua parte di quanto sia incivile il comportamento del potere), defilato, ridotto a mezzo dalle pressioni: la metà menzognera, ignobile nel suo silenzio, complice del massacro. E questo alimenta la scelta delle armi, mancando qualsiasi alternativa, e questo rinfocola la nostra indignazione attraverso quella immagine, che è la ciliegina sulla violenza premeditata, il massacro, lo scherno degli ufficiali, il lutto, la sconfitta della ragione: tutte tappe del climax che per questo si risolve in condanna inappellabile delle forze dell'ordine. Di tutte le forze dell'ordine, che si comportano o si sono comportate così. Cioè tutte.
Le due sensibilità sono correlate: continuare a prestare attenzione alle realtà e ai bisogni significa doversi anche assumere l'onere di estendere il dibattito sulle forme di repressione innescate, poiché lo stato di polizia è un'esigenza di un potere che non sa fino a quando riuscirà a controllare l'opinione pubblica solo con la manipolazione della comunicazione e, a causa delle sue scelte elitarie, deve soffocare ogni dissenso nelle forme più brutali di dissuasione.
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