7/5/2001
"Non tutte le città si chiamano Guglielmo"
Luoghi comuni. Stereotipi. Come quelli che si rischiano a ogni film di cultura regionale, e lItalia è tutta fatta di cultura regionale, anzi di culture regionali. E un pezzo dItalia è inconcepibile senza presupporre tutte le altre, checché ne dicano i sostenitori della Padania Felix. Così, guardando "I cento passi" in mezzo ai ragazzi di un istituto tecnico, nei primi minuti arrivano le prime battute: festa di famiglia, matrimonio del cugino americano e primi lazzi nei confronti di quella parlata che non è tutta dialettale ma nemmeno italiana standard. Il più creativo dei ragazzi sottolinea che uno dei partecipanti al banchetto nuziale parla come il prof. di matematica. Mi chiedo perché e mi rispondo che sono un idiota a dimenticarmi che ci troviamo a 15 km. dal confine tra Piemonte e Francia: ecco, lo statale, il prof. viene identificato con il sudista. Ma dopo cinque minuti leffetto è finito, perché il film "prende" anche i ragazzi. Nonostante i luoghi comuni e le immagini di mafia e le fattezze di mafiosi che ci sembra di avere già visto mille volte.
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Il film di Giordana accetta la sfida del luogo comune. È coraggioso anche per questo, oltre che per limpegno civile. Ma mi dico ancora non cè una vera e propria tradizione del cinema italiano migliore in questo senso? Non sono sempre andati di pari passo cinema civile, cinema impegnato e regionalismo? Che cosa è "Paisà" se non una risalita a tappe nellItalia liberata o in via di liberazione (Sicilia, Napoli, Roma, Firenze, il convento dei frati in Emilia, il delta del Po)? Nello scoprirsi separata, ancora separata, lItalia si riconosceva come provvisoria, come dilacerata, e la liberazione di tutte le regioni era condizione alla salute di tutti. Certo, con lannacquarsi del neorealismo si è caduti più volte nel bozzettismo e nella banalità. Ai "Pane, amore..." e ai vari Alberto Sordi sono poi seguiti i film del filone "città violente". Bastava poco, un abito gessato, una canzone nei titoli di testa, per fare "guapparia".
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Poi ancora, però, è venuta la stagione delle visioni alternative: i tratti caratteristici di questa o quella città, di questa o quella regione si erano attenuati in un clima culturale che, da tempo livellato dalla tv e dallitaliano standard (qualcuno lha già sentito realmente?), veleggiava verso le ambiguità della World Music e del blues napoletano (qualcuno sa che cosa sia?). E gli scampoli, gli angoli strani di città diverse cominciavano a rincorrersi e assomigliarsi: un po come nella storia anni 30 di Popeye alle prese con i demoni che vivono sottoterra e rubano le verze ai contadini, e si chiamano tutti Guglielmo. La Napoli di Martone o la Torino di "Manila Paloma Blanca". È Napoli ed è Torino, certo, ma è anche astrazione. Straniamento, invece, era quello della Ravenna di "Deserto rosso", e poco riconoscibile era la Livorno delle "Notti bianche" di Visconti. Anche qui cè però un rischio: quello di cercare il non-visto a tutti i costi, linusuale per il gusto di dire qualcosa di diverso, a tutti i costi; il conformismo tutto italiano di dire a forza una voce contraria (per esempio su "La vita è bella" e "La stanza del figlio", combinazione lo stesso giornale, "Il foglio") pensando di fare opera di anticonformismo.
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Invece Giordana accetta la sfida, e si accolla lonere di non aggirare gli ostacoli dei luoghi comuni. Sì ai gessati, sì alliconografia e alle battute che avremmo già sentito nelle varie "Piovre". Innervate qui, però, di ben altro spirito. Altri tempi, e altri uomini come ama scrivere Igor Man daltra parte, erano quelli di "Radio Aut". Altra musica (Janis Joplin, Procol Harum). Altra musica anche nel coraggio di scendere nelle viscere della familiarità e del noto, che sono anche viscere di banalità in potenza. Giordana sembra vincere la scommessa. Chi altri ci prova?
Alberto Corsani
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