OSAMA di Siddiq Barmak
L'apparenza inganna, ma è più verace della realtà

L'attrice Marina Golbahari mentre sale sull'albero e mentre contempla la realtà che la circonda

Finalmente ci è concesso di assistere alla prima produzione filmica afghana dopo la caduta, avvenuta due anni orsono, del regime talebano votato al fondamentalismo islamico.
La citazione che anticipa i titoli di testa di Osama (premiato sia al Festival di Londra che a Valladolid, dopo aver avuto successo a Cannes, Montréal e Toronto) contiene un viatico discutibile, seppur adatto a introdurci sia nella narrazione che nella maniera di trattare e montare le immagini a guisa di documentario, romanzato al punto giusto da suggellare la presenza in apertura e chiusura dell'opera di una telecamera, che, mentre filma gli eventi, trova le aperture, i diaframmi e i tempi adeguati per registrare anche i fuori scena, testimoniando incubi e frustrazioni claustrofobiche, tramite gli sguardi delle protagoniste in tralice tra un burka e una capigliatura recisa, che non lasciano margini al poter apparire per quello che si è: donne condannate a proseguire quotidianamente una vita di miseria o una morte in vita.
"Non posso dimenticare, ma posso perdonare" recita l'esergo dedicato a Mandela, ma sarà poi così vero? A giudicare dalla trama si finisce con lo scordare questo monito giustapposto all'apertura dell'universo sviscerato: nel corso del film si assiste a un perdono in forma di grazia salvifica, che consente alla giovane di guadagnare un riscatto, relegandola al contempo a svolgere la mansione di moglie di un vecchio Mullah, generoso perché ridestato da un improvviso desiderio sessuale, ma la concessione ricevuta può rappresentare davvero un segnale di perdono o assume una valenza differente perché è impossibile dimenticare le proprie tragiche sorti, la propria natura femminile, che, mentre cerca di esistere, deve fare i conti con un apparire che viene negato? È meglio essere lapidate o finire il resto dei propri giorni a fare la schiava in un harem islamico? L'interrogativo è comunque vano perché queste donne non hanno diritto all'autodeterminazione e quindi non possono decidere quale s
Osama, versione afghana del travestimento/disvelamento di un'identità, già narrati nel film iraniano
Baran, dipana la tragica sorte di una ragazzina costretta a rinunciare alle lunghe chiome, seppur occultate dal velo, e a indossare abiti maschili, per poter uscire in strada alla ricerca di un lavoro, che possa sfamare la sua famiglia, ormai composta da sole donne.
Una nonna anziana la consola al suono di una nenia che narra di un arcobaleno speciale [raccontato in due modi,o meglio evidenziando due aspetti], sotto il quale non esiste una pentola d'oro, ma la possibilità per i giovani di trasformarsi nell'altro sesso, mentre la madre, infermiera presso l'ospedale fatiscente di Kabul, è impossibilitata gradualmente a lavorare, perché il regime fondamentalista non consente alle donne di esercitare un mestiere, né tantomeno di uscire se non in compagnia di un maschio; tra l'altro, non potendo rivolgere parola a estranei, queste povere creature appaiono condannate non solo a nascondere il loro volto e la loro bellezza dietro a un velo, ma addirittura all'isolamento e al silenzio eterno. Già lo si intuiva, ma il film ha il pregio di esplicitare i nostri pensieri, che non sono luoghi comuni stereotipati, ma casi di vita vissuta. Per i talebani una donna ha lo stesso valore di un oggetto appoggiato su una mensola di casa: guai a mostrarlo a smadrasa, una scuola coranica, che è anche un centro di addestramento militare, la condanna a morte è sicura. Però l'inganno che mistifica la realtà, usando l'apparire per mostrare una parvenza di universo talebano, cela al suo interno anche un tentativo di sopravvivenza, un timido impulso a esistere, seppur reciso al suo nascere come le trecce della ragazza, tagliate per poter assomigliare a un maschio, ma piantate in un vasetto, nella speranza possano diventare linfa per nuove creature, quelle giuste a cogliere la possibilità offerta dalla magia dell'arcobaleno della favola, quella narrata la seconda volta dalla nonna, quando fa accenno alla possibilità di scegliere quale sesso abitare. L'inganno si diffonde a ogni livello della società, fino a pervadere quasi tutte le inquadrature del film, nelle quali un dettaglio o un'intera situazione sono palesemente frutto e bisogno di falsificare il dato di fatto, un gradino in più dell'apparenza. L'occultamento della r

Il rito della trasformazione: fingere di essere un ragazzo

Barmak porta sullo schermo della finzione la prima manifestazione di novecento donne, giovani, mature, anziane, vedove, avvolte in una miriade di shador azzurri, il cui tessuto si srotola compatto a mostrare un unico fiume straripante sulle strade deserte di una Kabul desolata, in uno scenario postguerra: le loro grida e i cartelli issati recitano un unico slogan "Abbiamo fame! Non facciamo politica! Dateci lavoro!" e il loro comparire graduale fino a occupare massicciamente l'inquadratura viene anticipato dal sonoro, un brusio via via sempre più intenso e insistente, che ritma il loro incedere, frammezzato dai siparietti del ragazzino che dispensa liberazioni dal malocchio al prezzo di un solo dollaro, mentre guida la telecamera dell'operatore a scoprire quel mare celeste, soffermandosi ora sul primo piano di un velo, talvolta sullo sguardo smarrito delle giovani. Ma improvvisamente il corteo si scioglie e si disperde: sono arrivati i talebani che sparano in aria e come non bastasse si divertono pure a investire con potenti getti d'acqua il corpo delle dimostranti. Il tessuto ormai fradicio si appiccica alle membra, alcuni veli cascano a terra e si mescolano al fango, ognuna pensa a schizzare di qui e di là come gocce impazzite di una fiumana, le più piccole, per evitare le sferzate, vengono bruscamente separate dalle mani materne e contribuiscono ad aggiungere umidità al torrente azzu
A differenza di Baran la donna non è vista attraverso gli occhi di un uomo, ma è lei direttamente a scrutare il mondo e, senza filtri, a essere messa in scena: il regista diminuisce la portata lirica, aumentando la componente didascalisca, però in questo modo la femminilità si affranca da qualsiasi tramite maschile.
In Afghanistan l'acqua manca, è un bene prezioso, forse proprio per questa ragione Barmak utilizza questo elemento naturale, che è universalmente noto come simbolo di purezza, per trasformarlo in un'arma capace di spazzare donne inermi, costrette a una doccia sacrificale che piega i loro corpi fragili. Molte non riusciranno a salvarsi e verranno catturate per essere imprigionate in gabbie, sigillate da massicci lucchetti, che sono una delle innumerevoli prolessi del film, ritornando in modo persino sarcastico nel gesto del Mullah che pensa di essere rispettoso della volontà femminile, facendo scegliere a Osama il lucchetto con cui la segregherà. Quelle gabbie bloccano i movimenti femminili, concitati durante l'azione del corteo, esattamente come il burka immobilizza Osama nel cortile della madrasa, congelando i suoi movimenti nella sequenza dedicata al disvelamento. Questi erano stati ipercinetici, ma, nel momento in cui le fanno indossare il burka, la ragazza perde energia e si pa

Adunate femminili e maschili

Le donne non ricorrono coscientemente all'inganno, ma perché costrette da restrizioni sempre più proibitive: la madre indossa il velo solo quando fanno irruzione in ospedale i talebani, si finge consorte del figlio del malato, di cui si sta occupando, che la scorta a casa in bicicletta, nonostante l'abito tirato su per sedersi sul sellino lasci scoperta (involontariamente?) l'unica parte del corpo visibile in simili circostanze: i piedi, belli e sensuali, calzati da un paio di sandaletti, di certo non autorevoli, anonimi e claustrofobici come i soliti zoccoli. L'attenzione alle estremità femminili è un dettaglio ricorrente nella filmografia dei paesi del Vicino Oriente (anche in Baran il travestimento viene intuito dal ragazzino proprio a partire dall'esame delle calzature): i piedi rappresentano un'attrazione fatale, sono una pars pro toto candidamente esposta allo sguardo dell'osservatore. Non a caso saranno proprio loro a tradire Osama nella scuola coranica, quando crocifissa a testa in giù nel pozzo, per espiare alla sua colpa di essersi inerpicata su un albero, per dare ai compagni prova di tempra e coraggio maschile, una volta tornata alla stazione eretta, lasceranno intravedere rivoletti di sangue, per assecondare il ciclo naturale del suo diventare finalmente donna.
Ed è proprio una ragazza quella che Osama disegna con il dito sul vetro appannato nel negozio di un vecchio, generoso e stranamente disposto a contravvenire alle regole, mentre mescola una sostanza bianca e lattiginosa; è sempre una giovane quella che sogna di saltare la corda, mentre invece deve prepararsi ad assecondare i piaceri sessuali del marito, nel pieno rispetto dei doveri coniugali.

Timidi segnali di tenera dolcezza

"Il film è stato presentato in Afghanistan l'agosto scorso ed ha ricevuto buone critiche, è piaciuto soprattutto ai giovani. Barmak spera che Osama, trattandosi di una coproduzione tra Afghanistan, Giappone e Irlanda, sia anche una speranza per il futuro. Il cinema deve servire per avvicinare culture e riunire finanziamenti. La cooperazione tra paesi diversi è molto importante, soprattutto adesso che il mondo è un villaggio globale, perché rappresenta l'amicizia tra i popoli.
Come può il cinema essere d'aiuto per la ricostruzione del suo paese?
È la via per arrivare alla gente. La Rivoluzione d'ottobre dell'ex Urss ha dimostrato come si può mettere il cinema al servizio della propaganda. A parte questo, l'80% degli afghani è analfabeta e quasi non esistono né radio né tantomeno televisioni. Il cinema è un'arma poderosa per cambiare le menti.
Qual é la situazione delle sale?
Ne esistono 35. I talebani le hanno distrutte. Abbiamo bisogno di aiuti, anche se si possono sempre fare proiezioni itineranti. Esiste un comitato a Parigi, forse anche in Italia potreste darci una mano... Per filmare, invece, ho chiesto aiuto agli amici che si muovono nello stesso ambiente ed ad altri come gli iraniani, capitanati da Mohsen Makhmalbaf. In Afghanistan non ci sono laboratori che lavorano con pellicole a colori e bisogna farlo in Iran.
Come è stato lavorare con i bambini di strada?
Molto difficile perché i bambini erano più interessati all'equipaggiamento che alla cinepresa. La difficoltà risiedeva nel farli recitare con naturalezza. Mi interessava che le loro storie ed i loro modi di essere entrassero nel film. A volte cambiavo il luogo o raccontavo il dialogo di un compagno. Mentivo, per osservare la loro reazione spontanea...
Convincere il padre di una bimba di 12 anni a farla lavorare in un film non dev'essere stato semplice...
Il padre della bimba è un musicista disoccupato che aveva bisogno di soldi. Comunque è stato molto difficile incorporare attrici o semplicemente donne al progetto. C'è una scena per la quale abbiamo dovuto contattare circa 900 comparse per simulare una manifestazione e non è stato facile trovarle e convincerle.
Il titolo "Osama" sembra sfruttare anche il personaggio che c'è dietro. Era proprio necessario?
Dire Osama in Afghanistan provoca terrore. È l'equivalente del vostro Al lupo, al lupo!, come nelle fiabe. Ci siamo resi conto che il titolo inizialmente previsto per il film ("Arcobaleno"), non serviva a nulla. Il fim parla dell'orrore e ci interessava sapere ciò che c'era dietro e perché la gente avesse terrore. C'è una scena nella quale qualcuno importuna la bambina per strada ed il ragazzino che vuole difenderla inizia a gridare "Osama! Osama!" affinché la lascino in pace"(intervista rilasciata dal regista sul quotidiano Il manifesto, sabato 29 novembre 2003)

Le pose giuste per essere veri maschi

Paola Tarino