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Far from Heaven - Tod Haynes

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Una cosa ha avuto poco rilievo nei commenti al film e a noi sembra sia invece la chiave di volta del lavoro di Haynes: quattro momenti quasi subliminali, di pochi fotogrammi perturbanti, obliqui in mezzo a inquadrature tutte in bolla: quelle quattro isole di interruzione della magnifica ossessione sono stridenti immagini piegate all'imposizione della diagonale assassina che incide nell'animo con il suo disequilibrio esibito e urlato, come da tradizione espressionista innestata come un virus sui melò alla Sirk (citato perfettamente nelle inquadrature notturne sul divano con ampia vetrata alle spalle - All That Heaven Allows -; ma anche nella figura del giardiniere, simile al Ron Kirby interpretato da Rock Hudson; o nello scandalo ricalcato su Written on the Wind). Questi quattro momenti ci hanno fatto tirare giù il cappello di fronte alla filologica esecuzione di Haynes:


1. Il primo di questi momenti si intravede [sono così veloci che non siamo riusciti a fotografarli, se non l'ultimo] su un vicolo dopo la proiezione a cui assiste in solitaria il protagonista, il punto di vista è dalla parte di Frank Whitaker (soggettiva). È il sintomo della sua maledizione che gli si palesa, gettandolo nella disperazione - non era tempo di gay pride. Una caratteristica comune alle altre tre, la cifra che dà il livello di irreparabile, che Sirk non poteva esprimere e Fassbinder disperdeva nell'intero testo; qui invece permette sottilmente di uscire dalla parodia o dal semplice omaggio, per raggiungere il risultato di interpretare come un meccanismo si sia inceppato, rotto, e l'armonia non esista più. La dannazione.
Natale da iconografia, da illustrazioni di rivista, la stazione di polizia uscita dai noir dello stesso periodo con auto parcheggiata lucidissima, coinvolgendo così l'intero Zeitgeist: non è parodia, né ricostruzione, ma totale aderenza per inserire poi l'eccesso (minimo, quel tanto che basta per scardinare la "leziosità" - parola pronunciata) che giudica al di là di quello che poteva fare Sirk. Senza appello. Apparentemente laccato in realtà feroce.


2. Il corridoio sull'ascensore della magnatech (azienda totalizzante: metafora del mondo e unico filtro attraverso il quale misurare la propria esistenza), visto dal punto di vista di Cathy Whitaker (che entra in campo: falsa soggettiva, utile per introdurre lo sguardo dall'alto, indagatore e partecipe testimone del tracollo di un mito invidiato): questa volta è il suo mondo che crolla senza appello in quell'inquadratura obliqua, assorbendo la sua felicità di moglie modello di una famiglia modello, risucchiata dal piano inclinato che mostra un mondo sconosciuto, incerto, appunto ripreso in modo asimmetrico. E lei è testimone oculare: o crede ai suoi occhi, o nega quella vista, relegandola nello sguardo obliquo, rifiutando di aderirvi. L'intrusione di questo codice borderline fatto di inquadrature che negano il piano orizzontale, per altro usato diffusamente da Fassbinder - in particolare in Berlin Alexanderplatz - legittima il sarcastico distacco che consente di irridere amaramente il mondo illusorio in cui vive imprigionata la protagonista (esasperato a questo proposito è l'episodio del medico che dovrebbe curare il marito dalla sua "malattia").
Però lei vi è infitta, per cultura, educazione, impossibilità di escogitare da sola altre vie di uscita per cui la risata viene frenata nella gola "femminile" dalla tragica constatazione che non è possibile evadere da un destino, non c'è modo di uscirne, non esiste un Montecristo che, capito come funziona un labirinto e disegnatolo dall'alto (molte inquadrature sono in plongée e spesso di alberi, che sono simbolo di natura armonica, soprattutto nel melange di colori, nei quali le donne si confondono con i colori dei loro abiti, ma sono anche sentinelle di quell'aurea gabbia in cui sono recluse dai loro riti bacchettoni), riesce a intravedere la soluzione. Sono tutti osservati dentro una bolla di neve, che si agita - e li agita -, si mescola - e li confonde -, li miscela - e sacrifica -, ma poi il microcosmo torna come prima: le apparenze valgono più di una vita vera e delle emozioni. Gli alberi assistono, con il passaggio di stagione, all'inverno del loro scontento. I colori dell'autunno si spengono in quegli azzurrini già contenuti nel foulard che volava via all'inizio del film, quando il cancro era già insito nell'inquadratura (fin dalla falsissima auto styling che si ferma nel falso vialetto con falso bambino).


3. È il momento che a prendere atto di essere vittima senza scampo tocca al giardiniere, l'ultima vana speranza di essere accettato come simile è negata; a sancirlo un altro gesto che occupa pochi fotogrami sbilenchi. In questo caso ancora più stereotipati, quelli dell'urlo intollerante classico, che indigna per l'orrida sua indignazione: un passante equivoca il gesto dell'afroamericano che trattiene la donna bianca e aizza la folla, pronta a linciarlo. Dall'altro lato della strada, lo vediamo in una dubbia soggettiva del giardiniere, che in una sola inquadratura si fa consapevole che i suoi sogni di amicizia e integrazione sono rintuzzati dalla chiusura dell'altro mondo. La comunità in silenzio disapprova (stessa inquadratura sulla massa qualunquista che ritroveremo nelle altre mamme al saggio di danza).
"L'unico nella stanza": l'elemento disarmonico, non a caso per colore, che non si amalgama nei toni omologhi delle inquadrature, soprattutto in natura, ma anche in arte; i colori adottati durante l'esposizione di quadri astrattisti (Mirò) nella galleria d'arte nella zona dove ci sono i due neri sono stridenti, accesi (arancione e blu), più in sintonia con i quadri che con l'ambiente; il ristorante per afro è immerso nel buio. Allo stesso modo è scura l'inquadratura in cui Quaid si confessa e tutte le volte che parlano dell'omosessualità, questo avviene al buio.


4. L'ultima inquadratura sbilenca è quella più odiosa: i ragazzini che inseguono Sara, la figlia del giardiniere, vista da noi in fuga (questa volta siamo noi, gli spettatori, i protagonisti del trauma, che dovrebbe colpirci, come vittime di quel razzismo odioso) e la lapidano perché diversa. Nera, incontrovertibile colpa: nera e figlia di uno non rassegnato alla sua condizione subalterna, assegnata dalle convenzioni che sono tutte elencate puntigliosamente e indicate come responsabili da quest'ultima inquadratura di violenza infame, disarmonica e scaturita da pulsioni contenute - nessuna esclusa - in quella società intollerante.
Gonne a ruote (ma l'ultimo abbigliamento adotta il più comodo tailleur) e magazine (il solito fotografo e il cartellone pubblicitario che usa come modelli la famiglia modello) per vite inamidate nell'ipocrisia (e non a caso qui ognuno insegue la propria felicità che però costa moltissimo in termini sociali). La pettineuse, inquadrata più volte, tipica metafora della ambiguità di quella società e della sua apparenza che nasconde le altre facce mettendole in mostra. La cucina americana funzionalista; ogni ambiente ha peculiarità che rispecchiano quella società a cui sta tendendo lo Zeitgeist attuale. Il telefono, che tradisce la sua funzione e comunica solo distanza e incomunicabilità: è foriero di cattive notizie, di solitudine, di distacco; tre sono gli apparecchi in casa Whitaker: uno in cucina al muro; uno sul tavolino nell'ingresso sotto le scale; uno sul tavolo sotto la finestra in camera da letto. Tutti attrezzi inutili: impediscono qualsiasi contatto tra interlocutori. Gelidi.


L'operazione intentata dal regista non è simulazione, perché l'apparenza esagerata diventa unica realtà levigata, fatta di oggettini laccati, e specchi, il resto è relegato in quei quattro momenti: infatti in Sirk l'ossessione scaturiva, si sviluppava, esplodeva e si decantava depositandosi all'interno del testo; qui invece il fattore perturbante non solo proviene dall'esterno (Rock Hudson per Come le foglie al vento), ma si produce in una mostruosità che ha connotati estranei all'armonia del mondo fittizio che si vuole creare, perciò Haynes saccheggia immaginari estranei al melò solo in quei pochi fotogrammi che fungono da segnale e da giudizio, da mostruosità - in senso proprio di fenomeno estraneo - e da attrazione nel gorgo ineluttabile sirkiano.

adriano

Burch-eggiando, vorrei dire che il ritratto della famiglia americana nel secondo dopoguerra, al modo di Norman Rockwell (il celebre illustratore del «Saturday Evening Post»), mi entusiasma per come il soggetto narrativo aderisce al progetto formale. Il melodramma hollywoodiano degli anni Cinquanta ha avuto il proprio campione in Douglas Sirk, autore di Secondo amore e Lo specchio della vita; allo sguardo emotivo, partecipe delle vicende individuali dei personaggi, si univa una forte carica allusiva rispetto alle mutazioni della società americana (famiglia, integrazione razziale, sessualità), il tutto diluito in uno stile visuale elegantissimo, fluente. L'operazione di Todd Haynes non è quella di ridarci Sirk (anche se alcuni elementi dell'intreccio sono derivati dal plot di "Secondo amore", in cui Jane Wyman è una vedova che si innamora del giardiniere Rock Hudson), ma piuttosto di raffreddare il dramma alla temperatura del manierismo, introducendo lo scarto del tempo e del linguaggio. La prassi manierista, nei linguaggi rappresentativi, si muove sul doppio binario della citazione e del tradimento, spostando il discorso dell'arte dai significati ai significanti: qui la musica di Elmer Bernstein richiama meravigliosamente il Max Steiner di Scandalo al sole, la recitazione degli interpreti (Julianne Moore e Dennis Quaid magistrali) recupera la gestualità composta dei modelli di riferimento, la scenografia cura ossessivamente il dettaglio d'epoca, la fotografia impasta la luce rivelatrice di Edward Hopper con i profili sorridenti di Rockwell. È giusto chiedersi, al di là del compiacimento dell'eclettico, dell'imitatore di stili, quale sia il senso autentico di un'operazione siffatta; crediamo che l'adesione del film ai moduli linguistici descritti nasca dalla medesima motivazione che spingeva gli artisti del Cinquecento a rifugiarsi nell'alveo sicuro del linguaggio: la crisi storica in atto non può imporre nette scelte di campo ma determinare avanzamenti impercettibili e arretramenti minimi, nello spirito della defezione e del tradimento. Il critico Achille Bonito Oliva colloca il manierista di ogni tempo "nel luogo impervio della finzione e della scissione". Ecco Cathy e Frank, scissi fra il patto coniugale e le pulsioni indicibili, condannati alla finzione dei manifesti pubblicitari: il film ne rivela la natura di automi, di marionette di un sistema, di uomini e donne a una dimensione. Nel fare ciò, concordiamo con quanto Alberto Pezzotta scrive sul Corriere della Sera, "attualizza il passato e lo legge come specchio del presente scavando in emozioni senza data". È forse per questo che un buon numero di spettatori, che certo non hanno nostalgia né memoria di Douglas Sirk o del secondo dopoguerra, sono andati a vedere un magnifico film senza divi.
Luca