Il doppio di Calvero
Mettete un paio di baffi al Bresson che campeggia sulla prima pagina di "Libération" di mercoledì 22 dicmebre. Il risultato è impressionante per gli amanti del cinema. Perché, con vostro stupore, verrà fuori Calvero. Chaplin truccato da Calvero, anzi Chaplin truccato da Calvero a sua volta in procinto di truccarsi in camerino. Tanto rigoroso nelle forme espressive dei propri film, Bresson fu civettuolo, ancorché riservato, quanto alle immagini che concedeva di sé medesimo. Si impuntò nel 1987 in una vertenza durissima con lo stesso giornale, alla ricerca di foto dei registi ai quali aveva posto la domanda: perche fate cinema? Vertenza difficile, poi risolta. Ma le poche foto che lo ritraggono, curiosamente, rispetto a quelle di tanti altri, sono tutte ben fatte e ricercate. Un ulteriore segnale della sua aristocrazia?
Quale aristocrazia, peraltro? Quella dei temi che affrontava? A me sembrano piuttosto reali e quotidiani. Quella del linguaggio sì, purché ci si intenda: leconomia della forma, cui tanti fanno riferimento dopo che ne ha parlato Tinazzi, giustamente, è valida solo se si intende per economia la quantità di elementi messi in campo, squadernati inquadratura dopo inquadratura. Le quali inqiadrature, in effetti, si compongono di pochi elementi apparenti. Ma dietro ci sta tuttaltro che leconomia. Ci sta un know-how di mole immensa, che consiste nel calcolo dei tempi, negli attacchi e stacchi sul movimento (che solo a fine anni 50, in Europa, sarebbero diventati una costante), nellintreccio con il sonoro come solo Tati sa fare, nella calibratura delle ellissi e delle iterazioni. Un gran lavoro che secondo me trova riscontro in poche forme di cinema. Butto lì: lanimazione (alla Alexeieff magari) e, perché no, lo slapstick, che non regge se non con un calcolo accuratissimo di tempi e spazi del set, fino alle previsioni sui frattali degli spostamenti di oggetti e corpaccioni (Fatty, Ollio) coinvolti nelle gag. Ancora una curiosa sintonia del nostro doppio di Calvero.
Traiettorie, dunque, e angoli non smussati; non aveva bisogno di renderli scenograficamente espressionisti, perché la durezza stava tutta nelle idee, nelle sue e in quelle che conducevano i personaggi alle loro azioni. Angoli che determinavano una serie di rimbalzi, ma non su sponde arrotondate, come nel flipper; il gioco delle carambole non evitava linesorabile discesa negli abissi, perché la sofferenza di uomini, donne, ragazzi e animali non aveva per lui niente di salvifico (ecco perché piace ai protestanti). Nonostante ribellioni, colpi di coda, riemersioni temporanee, la tendenza è per ognuno ineluttabile, per Mouchette e per Balthazar, per Charles (ma anche per Valentin che lo uccide in cambio di qualche dose, Il divaolo probabilmente) e per Yvon tirato nella delinquenza dalla falsa banconota. Uninseorabile da amour fou e da Hitchcock.
In queste traiettorie Bresson ha voluto posizionare i suoi modelli, espressione del rifiuto dellattore. Nel rifiuto dellattore cè di nuovo qualcosa che lo avvicina a Chaplin, ovvero ai massimi esiti del comico muto. Dando per assodate le capacità tecnico-acorbatiche chie erano richieste allinterprete di slapstick, lomino con i baffi, anche quando si impossessa di quelli di Hitler o si aristocratizza nellincarnazione di Barbablu, mette in scena se stesso come una maschera. Come farà Allen-Zelig. I modelli di Bresson sono qualcosa di ancor più radicale della maschera. Questultima deve poter accogliere su di sé, restando se stessa, tutta la complessità della condizione umana fatta di contraddizioni, doppi, principi che negano se stessi; deve essere patetica e grottesca stando tale e quale. Anche il modello deve restare tale e quale, ma non per esprimere la complessità, bensì il destino, lineare e abissale delluomo. La maschera, evidentemente, passaggio obbligato, ma superato da Bresson, la riservava alleffigie di se medesimo.
Alberto Corsani