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riflessioni teoriche sull'immagine e il cinema
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Walter Murch “In un batter d'occhi.
Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell'era digitale”

Lindau, Torino, 2000, 113 pagine, L. 22.000

Copertina del libroWalter Murch ha avuto il merito e l'onore di prendere parte alla incredibile avventura di Apocalypse Now. Questo potrebbe, a ragione, farcelo pesare in ognuna delle 100 paginette di questo interessante volume (un po' caro nel rapporto prezzo/pagine...). E invece se la cava snocciolando alcune impressionanti cifre solo nei primi paragrafi (tra l'altro, verso la conclusione, scopriamo che, incredibilmente, le sproporzioni tra stampato e montato di Apocalypse Now sono state eguagliate proprio di recente da The insider di Michael Mann, un film straordinario e agli antipodi della follia coppoliana, tanto sembra "misurato").

E' in realtà un'esca, un abile espediente da consumato divulgatore, che aneddoticamente ci introduce in un discorso progressivamente più tecnico e teorico, non rinunciando a portare in primo piano, ove serve, il vissuto di chi scrive.
La chiave per apprezzare pienamente questo approccio (oltre che nella limpidezza degli esempi) si trova al termine del libro, in cui si rivendica la natura collettiva del cinema sia come fruizione che come produzione: è la condivisione delle esperienze il punto focale del lavoro cinematografico. Come potrebbe altrimenti un solo individuo affrontare l'impossibile numero di varianti, possibili combinazioni del girato, senza l'aiuto di appunti (confronto con il proprio tempo passato di riflessione e annotazione) e di altri occhi? Talmente ha bisogno antropologicamente dell'altro, Murch, che arriva a montarsi un teatrino cinematografico in miniatura davanti ai monitor che ormai hanno sostituito l'amata Kem: ritaglia figurine umane proporzionate rispetto al monitor e ad un'ipotetica sala cinematografica, per farsi un'idea dell'effetto che può fare la proiezione su uno schermo vero del film digitalizzato e momentaneamente costretto in una ventina di pollici di diagonale.
L'avvento del digitale è caratterizzato dal proliferare di queste tecniche di sopravvivenza, ma non si tratta di reazione all'innovazione, quanto di strumenti utili per non rimanere schiacciati dalla tecnologia digitale, che presenta indubbi vantaggi, superiori ai costi, ma possiede anche "lati oscuri" (Murch ha naturalmente collaborato anche con Lucas...) e, come del resto i suoi predecessori meccanici, necessita di alcuni aggiustamenti ergonomici. Lontano dal feticismo della pellicola, Murch presenta il montaggio non tanto come un rapporto privilegiato con la materia, quanto come una "danza", un esercizio fisico che coinvolge "muscolarmente" anche l'occhio (in grado, secondo Murch, di percepire le immagini accelerate da una moviola a 1/240 di secondo): si monta in piedi, dunque, anche se la tastiera e il monitor ci vorrebbero tutti seduti e sostanzialmente paralizzati dalla cinta in giù.

Una foto di lavorazione di Murch da L'insostenibile leggerezza dell'essere

Attraverso racconti anche toccanti (come il batter d'occhi di Hackman/Caul in La conversazione, che dà il titolo al libro), chi legge viene introdotto a un mondo, quello del montaggio, in cui convivono lo stacco dato in tempo reale (uno stacco intuitivo, dunque, alla ricerca della prova "scientifica" della riproducibilità dell'atto e dell'attimo) con un sistema computerizzato di appunti (indispensabile per non perdersi nell'oceano del girato), il massimo di progettazione possibile (e il rapporto con il regista che "possiede" la visione) e l'autorganizzazione tramite l'applicazione su pannelli di stampe fotografiche di fotogrammi che se da un lato denotano grazie alle etichette numerate che identificano la scena, dall'altro diventano immagini-affezione, connotano l'orizzonte di scelte e costituiscono l'arredamento, l'habitat del montatore.

Ambiente che il digitale non modifica così radicalmente, se non per un fatto fondamentale, già accennato implicitamente in precedenza: il digitale, grazie all'accesso diretto e alla possibilità di farsi memoria (di varianti e di materiali), favorisce il solipsismo dell'artista, permettendogli, se vuole, di rinunciare al lavoro collettivo o a gran parte di esso. Murch è in questo senso ottimista e, come per il pubblico prevede un futuro in cui la digitalizzazione non rinchiuderà nell'"home-theater", ma perpetuerà l'esperienza basilare e necessaria della visione collettiva (anche qui Murch è toccante, anche se pericolosamente vicino ai confini della new age); così per la produzione intravede un affiancamento delle figure più solitarie (che sicuramente avranno più strumenti che in passato) ai cineasti "classici", a chi continuerà quindi a pensare che, indipendentemente dalla tecnologia, un film si fa meglio insieme.

Marcello Testi