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riflessioni teoriche sull'immagine e il cinema
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Sopralluoghi e riflessioni intorno a:
Gianni Canova “L’alieno e il pipistrello.
La crisi della forma nel cinema contemporaneo”

Studi Bompiani, Spettacolo e comunicazione
Milano, febbraio 2000, L. 29.000

Più che una recensione considero questa una (ri)cognizione riflessiva del saggio di Gianni Canova. Analisi, quella di Canova, che, lo dico subito, tende a sviluppare una tesi dimostrativa di uno status del cinema contemporaneo, uno stato paradossale, giacché da una parte dimostra la vitalità perspicace di occhio privilegiato sul mondo, di perspicua analisi del famigerato cambiamento di paradigma – dal moderno al postmoderno – dall’altra parte invece sono sviluppate le analisi che ci condurrebbero alla conclusione di una crisi delle forme cinematografiche.
Il ragionamento di Canova sembra non fare una grinza dal punto di vista procedurale, ma l'architettura della tesi traballa per un'errata o insufficiente focalizzazione dei problemi in giuoco e una inadeguata assunzione dei principali interrogativi.

Perfino il titolo appare paradossale poiché la sua prima parte "L'alieno e il pipistrello" identifica un'operazione esemplare di processualità delle forme nella fondamentale opposizione tra identico e differente, mentre la seconda parte "la crisi della forma nel cinema contemporaneo" designa, o meglio dovrebbe indicare, una paralisi del linguaggio cinematografico, una incapacità di riciclarsi - non rigenerazione ché indicherebbe uno sterile perpetuarsi -. Il paradosso non è in discussione quale principio conoscitivo, qui si discute e mette in dubbio semmai la concatenazione causale che è stabilita tra crisi del regime scopico e crisi di forme cinematografiche.

Il discorso si complica almeno dal punto di vista della tesi che qui voglio sostenere e cioè che l'unica crisi ipotizzabile è quella che potremmo definire extracinematografica che spazzerà via il cinema con altri mezzi tecnologici di fruizione "sensoriale", non solo audiovisiva; ma il cammino è lungo, ne intravediamo sicuramente il percorso, anche se risulta certamente difficoltoso immaginare le caratteristiche di questo cammino e soprattutto la portata dei risultati tra venti o trent'anni (la data tuttavia è soltanto un'ipotesi vagante).

Detto questo in che cosa Canova identifica la crisi del cinema contemporaneo? Nel declino del regime scopico (che mette in scena più sotto forma di intrecci narrativi), cioè la crisi dello sguardo come rilevante opzione teoretica. Un assunto che comprende la storia intera di questo secolo e perfino il cinema delle origini, l'invenzione stessa, dato che fin dal secolo scorso si conoscevano gli inganni della percezione umana. Che cosa si può dunque aggiungere su una fallacia dell'occhio umano che si consuma ormai da più di un secolo e mezzo?

Passando oltre questo breve imbarazzo di "datazione" della crisi si deve fare il punto sulle coordinate della nuova sensorialità che il paradigma postmoderno con tutte le approssimazioni del caso, l'impossibilità di accademiche definizioni, ma anche di costruire sistemi generali.

E il percorso non può che iniziare, come del resto il saggio di Canova, sulla ricerca di quei minimi punti di riferimento coi quali intraprendere un discorso fattivo sull'esperienza artistica ed in particolare quella cinematografica. Era quasi scontato che s'iniziasse dalle analisi del postmoderno.

Canova ne discute quasi in parallelo con i primi film citati. Le caratteristiche del postmoderno sono tratte dagli studi di Fredric Jameson, il critico americano autore del saggio "Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo". Tali osservazioni privilegiano la componente economico tecnologica, additandola quale causa principale delle profonde mutazioni culturali. In un'ottica generale le analisi di Jameson appaiono più intriganti giacché annunciano anche una stretta interdipendenza ed un attrito tra gli studi culturali e la tecnoscienza. - A proposito sono illuminanti le osservazioni di Mario Perniola, nell'editoriale della nuova rivista "Agalma", che focalizzano l'attenzione sulla pervasività delle conoscenze scientifiche sugli studi culturali -. Bisogna considerare attentamente gli effetti della rivoluzione tecnologica sul nuovo sentire, sulla produzione culturale (nel senso più allargato possibile). Tra le caratteristiche più rilevanti della produzione (estetica) postmoderna citate da Jameson ci sono l'Ibridismo, inteso come estinzione della dialettica tra alto e basso, il "populismo estetico" in cui non ci sono gusti dominanti, un "pluralismo senza centro e gerarchie [· ]del tutto funzionale alle esigenze dell'industria culturale"; la Frammentarietà come "soggetto indebolito, problematizzato e frammentato"; la Superficialita - "frivolità gratuita" e "superficie decorativa" - che annulla tutti i modelli di profondità; l'Euforia "allegria allucinatoria" e "sublime isterico" alti e bassi emotivi privi di una funzione conoscitiva; l'Omogeneizzazione dello spazio come esperienza "disorientante"; la Presentificazione del tempo, l'eterno presente che secondo Remo Ceserani "cancella dall'attenzione del soggetto il passato storico e il futuro, sia nella sua forma utopica sia in quella apocalittica e catastrofica".

Queste caratteristiche sono riprese in un senso abbastanza negativo, anche perché insistono sulla frustrante ripetitività della differenza: la "differenza eclissa la norma". Ma proprio il carattere della differenza sembra configurarsi come l'eredità più pregnante del postmoderno. Nel saggio "Che fine ha fatto il postmoderno?" nella rivista Agalma, Giuseppe Patella si chiede, rilevando, forse, il carattere positivo del postmoderno: "Senza il tipo di consapevolezza che il postmoderno ci ha lasciato in eredità, come potremmo comprendere o anche solo confrontarci con le esperienze insolite e stranianti proprie di questi nostri tempi?" E ancora: "Come potremmo riuscire a farci carico di tutta quella vastità di fenomeni complessi e differenziati che coinvolgono la sfera del sentire contemporaneo, all'opera nel mondo della comunicazione e dei media, della politica, della religione e delle arti? Non è forse il caso di cominciare a misurarsi con le mutevoli forme dell'esperienza contemporanea - sempre più caratterizzate dall'esperienza della differenza, dell'opposizione, del conflitto, così come dalle ibridazioni, dagli scambi, dalle contaminazioni e dagli intrecci - a partire da quel diverso paradigma culturale, più aperto, flessibile, articolato, che si è imposto proprio con il postmoderno?". La coincidenza degli opposti, il passare da uno stato all'altro, per esempio dal diverso all'identico è la condizione pregnante del postmoderno - e Canova con acume la ripercorre, identificandola perfettamente nella seconda parte del libro riguardante le due saghe Batman e Alien. Ma vediamo quali sono gli interrogativi principali che potrebbero sorgere nell'assunzione di causalità diretta tra postmoderno e coincidentia oppositorum.

Secondo l'opinione di chi scrive, che qui anticipo, il cinema è tutt'altro che in crisi per la capacità delle forme espressive classiche come la soggettiva impersonale di "Strange days" o la dissolvenza incrociata di Blackout, di aprirsi a sensi/direzioni diversi. E del resto Canova quando parla di immagini non virtuali, di immagini tradizionali afferma: "· l'impressione è che nulla sia come prima. Neanche al cinema, neanche in quei film (e sono ancora la stragrande maggioranza) che paiono lontanissimi anche solo dall'idea di utilizzare immagini di sintesi. Il fatto è che l'irruzione della virtualità ha prodotto nello scenario scopico contemporaneo un effetto molto simile a quel sommovimento tellurico che si ebbe nella storia della letteratura con l'invenzione e l'avvento del romanzo". Come dire che l'elaborazione di un linguaggio si sta riorganizzando a partire da una nuova sensibilità. Sulla possibilità di senso delle varie opzioni stilistiche non c'erano dubbi, del resto è risaputo che esse non convergono mai verso un solo ed unico significato così come auspicavano le teorie strutturaliste. Tali movimenti di senso si configurano in intrecci narrativi nuovi che altro non sono che il processo di rifigurazione di dati esperienziali. Questa nozione discende chiaramente da Kant, per la parte sensibile, e da Ricoeur per l'elaborazione. Il cinema dunque sarebbe in crisi quale strumento che si affida solo allo sguardo, ad un occhio che è pur mutevole come l'obiettivo della mdp, mentre nell'elaborazione dell'intreccio narrativo in particolare, sarebbe in grado di continuare la ricerca dell'autentico. Per Ricoeur "la ricerca dell'autentico non può essere condotta senza un costante appello alla testimonianza dell'esistentivo"[1] Per capire meglio tale affermazione è bene sottolineare la fiducia di Ricoeur nel testo e quindi nell'opera (Ricoeur parla di testi letterari, ma il pensiero è applicabile senz'altro al testo cinematografico e Canova non a caso citava il fenomeno della romanzizzazione elaborato da Bachtin): "Ciò che un lettore riceve non è solo il senso dell'opera ma, attraverso il suo senso, la sua referenza, cioè l'esperienza che l'opera porta a linguaggio e, in ultima analisi, il mondo e la sua temporalità che l'opera dispiega dinanzi a sé".

Per non equivocare il senso di tale affermazione è bene ricordare che il termine referenza va inteso in un senso più ampio e discende direttamente dall'elaborazione da parte di Ricoeur dei concetti di mythos e mimesis. Vediamone le caratteristiche: "Si tratta di convenire sul fatto che Aristotele le intende in un senso processuale: come operazioni, cioè, e non come strutture. In particolare, la più problematica di queste nozioni, vale a dire la mimesis, deve essere dissociata dal significato con cui la adopera Platone (imitazione, copia) e meglio compresa nel senso dinamico di messa in stato di rappresentazione, di trasposizione in opere rappresentative. Cosi, se il mythos (che Ricoeur propone di tradurre con intrigue, intreccio) è composizione di azioni (ton pragmaton systasis), allora la mimesis sarà la ri-presentazione di un costrutto già di per sé dinamico, la sua collocazione in un regime finzionale caratterizzato da un ordine processuale. Meglio: da un ordine che nasce in virtù di un'adeguata strutturazione della processualità dell'agire. La systasis tragica, dunque è attività poetica che consiste nel portare ordine (concordanza) nell'ambito di quella sostanziale processualità dell'azione umana che, come tale, è esposta al disordine (alla discordanza) della sua contingenza. Comporre l'intrigo, in altri termini vuol dire far nascere l'intelligibile dall'accidentale, o meglio, raccogliere il contingente in un ordinamento il cui criterio di intelligibilità è processuale. L'azione è il costruito della costruzione, ed è quest'ultima l'attività mimetica"[2]

Come si può facilmente inferire quella affettuosa fiducia di Canova nel cinema come mezzo in grado di rappresentare i sintomi della contemporaneità è qualcosa di più di una semplice lungimiranza o casualità. Il cinema è riuscito ad elaborare esperienze nuove, quelle del nuovo sentire, che non passa più solo attraverso lo sguardo e tale elaborazione passa attraverso una ri-presentazione delle forme linguistiche classiche e naturalmente attraverso la rifigurazione di nuovi codici narrativi. Il cinema di fronte alla crisi del mezzo tecnologico, la naturale obsolescenza della macchina da presa, il proiettore, la pellicola, reagisce cercando di superare i suoi limiti intrinseci, ma non c'è niente da fare. é affascinante pensare che la crisi del mezzo coincide con un estensione della generale sensorialità, che supera, del resto anche gli altri sensi umani, oltre la vista, l'olfatto, l'udito, il tatto, attraverso le protesi organiche artificiali, strumenti all'inizio solo apparentemente di utilità contingente e conoscitiva, ma che hanno finito per fondare e disegnare un habitat ancora del tutto ignoto, ma che si lascia intravedere e immaginare con i primi esperimenti di cosiddetta realtà virtuale, o meglio, di immagini di sintesi

Questa riflessione è vicina a quella di Canova dedicata al tramonto del corpo. Bisognerebbe subito aggiungere "tramonto del corpo tradizionale", essendo in gioco le coordinate spaziali delle nuove macchine sensibili. é chiaro che le forme elaborate al cinema corrispondono proprio a nuove coordinate-categorie del corpo, o meglio della corporeità del tutto analoghe a quelle del fenomeno postmoderno succitate. Vediamo quali: Il corpo inadeguato, ossia l'impressione che in certe sequenze - i film citati sono "Fargo", "The Mask", "L'armata delle tenebre", "La morte ti fa bella", "Matrix", "Pulp Fiction" - "gli attori provino una sorta di disappunto per il fatto di non essere cartoni animati o icone di un videogame"; il corpo frantumato che è assimilabile ad un'attività psicotica che ha bisogno di fare a pezzi il corpo, "là dove un tempo il corpo campeggiava nella sua complessa e organica totalità"; il corpo multiplo per il quale bastano alcuni illuminanti titoli quali "Il professore matto", "Mi sdoppio in quattro", che cercano di risolvere "l'insufficienza della propria singolarità". L'ubiquità è forse una necessità postfordista; il corpo tecnologico che lascia intravedere un più concreto tramonto del corpo organico, un altro corpo magari risultato di mutazioni o incredibili ibridazioni come in "La mosca"; il corpo agonico che ricorrono per rappresentare "l'esperienza del morire, la genesi e la fenomenologia del venir meno". Con tutte le variazioni sul tema, da "Dead man" a "Casinò" a "Nirvana".


[1] Vedi Pietro Montani, Estetica ed ermeneutica, pag. 155

[2] Vedi Pietro Montani, Estetica ed ermeneutica, pag. 145-146 le parti in corsivo sono i brani citati da Tempo e Racconto di Paul Ricoeur

Andrea Caramanna