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T.A. - Tuta Antivaccate
immersioni spericolate nel ridicolo

Jung in pillole

Si è dovuto intervenire sulle strutture della tuta antivaccate e il collaudo è stato durissimo: ha sopportato le peggiori stupidaggini dette da Boniperti come da Fassino, da Berlusconi e da Rossella, Epifani, Kossiga ... tutto il mondo a sperticarsi in un processo di beatificazione della peggiore iena apparsa nel torinese negli ultimi 81 anni, non a caso qualche mese prima dell'avvento del fascismo. Eppure la tuta resse. Persino di fronte ai ricordi di Rita Pavone, addirittura le infinite interviste di Agnelli pontifex, riproposte a dimostrazione di quanto avesse operato le scelte più razionali quando licenziava, vessava, imponeva regimi polizieschi in fabbrica, schedava, corrompeva, cacciava i politicizzati, rovinava la vita alla gente, sottopagava, imponeva metodi militareschi, perseguitava i lettori di quotidiani non allineati e quando applicava il mobbing, quando ordiva tresche con Cuccia e quando organizzava marce di piciu, la juve, la vela, l'auto: solo bisillabi, la noia - che pare fosse la sua croce - una vita da militare di merda amico di un nazista come Kissinger, un'esistenza scontata, non come le sue auto... la tuta stesa su un divanetto psicanalitico reggeva bene a questo massaggio, imperturbabile, non si faceva irretire dall'ipocrisia e dall'omertà che invece gravava su quanto quell'umanità compressa dentro le fabbriche avesse dovuto patire. Nessuno di quelli che parlavano avevano dovuto immaginare di trascorrere lì dentro i loro prossimi 40 anni. Nemmeno la tuta ci pensava più e quindi superò il collaudo. Persino quando si sottolineava che Umberto è il fratello minore, praticamente nei Brutos quello che prendeva i ceffoni, la tuta innescava compensazioni inaspettate. resse persino alla palese menzogna che voleva cavaliere del lavoro e della fatica il bon vivant flané, fino alla bella età di 45 anni del tutto sfacendato, che può anche essere un titolo di merito, ma almeno non spacciatelo per stackanovista!
Dopo una sequela di cazzate così madornali la tuta era in grado di affrontare il film di Faenza. Morto un Agnelli se ne fa un altro, ma sul lettino dello psicanalista ci sono andati i pretendenti al trono, nulla poterono le religioni esotiche o lo strizzacervelli contro la vergogna di essere Agnelli lenita solo dai viadotti. Invece si salvò Sabina Spielrein a cui Jung diede le spalle mentre lei raccontava le stupidaggini che le passavano per il cervello malato dietro un paravento da cui spuntavano solo gli occhi e questo diede inizio alla prassi stereotipata, ovviamente.

Invece bastarono le prime sequenze e un malessere cominciò a filtrare attraverso la tuta... era il "cibo": quell'uso smaccato del luogo comune più trito dell'ambito psicanalitico aveva trovato già una breccia nel sofisticato apparato digerente della tuta; i progettisti non si erano cautelati da quel punto di vista: dicevano a loro discolpa che era troppo scontato, ma intanto assistevamo al deliquio gastro-anoressico del collaudatore. Tutto passa attraverso il cibo e la tuta cominciava a gonfiarsi come per una crisi bulimica inarrestabile. [ancora più scontata la sequenza in una konditorei a duplicare la sequenza del manicomio e la "seduzione", che sembra girata da Agosti ai tempi di prima di Basaglia]
Infatti la tuta comincia a soffrire di queste situazioni risapute, delle spiegazioni più scontate. La moglie di Jung che dice: «Tu hai assunto Freud come padre e lui ti ha scelto come figlio: per l'edipo finirete con l'uccidervi»: praticamente la psicanalisi spiegata ai bambini dall'ultimo epigono di Bignami; lo spettatore se lo aspetta e prega che non avvenga, la tuta sofisticata è attrezzata per salvarsi da ben altre trappole di sceneggiatura, di fronte a queste banalità televisive è disarmata [E l'aspetto televisivo emerge più volte nella relazione adulterina di uno Jung pieno di dubbi e incapace di uscire dal grigiore, ma anche per la velleità di raccontare e introdurre tutti gli aspetti della psicanalisi, come se fosse pagato da rai-educational].
La cifra di come Faenza riesca sempre a banalizzare anche il testo più intrigante (era già avvenuto con Yehoshua) perché agisce per saturazione di argomenti mai realmente analizzati da un lato e per assenza di approfondimento, viene misurata dalla tuta in punti "transfert": tutti i livelli di allarme raggiungono la soglia di attenzione non appena Jung si va a impelagare nel racconto del sogno erotico pieno di stalloni e puledri, che Sabina Spielrein si incarica di spiegargli, ribaltando i ruoli e anche lo stomaco inguainato nella tuta, che regge a questo attacco, rimanendo seriamente danneggiata da questo affondo. Ma subisce il knock out di fronte alla galleria di dipinti di Klimt, quando si sottolinea la somiglianza della splendida ragazza con Giuditta che decapita Oloferne (coppie che si duplicano e riflettono in rimandi da reader's digest, come il Tristano e Isotta o i due ricercatori della biblioteca di Mosca). È quando lei occhieggia di tre quarti ormai consapevole della propria capacità seduttiva che la tuta non riesce più a impedire i conati di vomito da situazione stantia, la data di scadenza era stata sicuramente contraffatta, risaliva ai primi anni del secolo.

In quel caso c'era un errore nel software della tuta, perché ci attendevamo ricostruzioni d'inizio secolo rifatte su modelli televisivi; imperdonabile dunque che non fossero stati previsti nemmeno i giochi con le parole che ne richiamano altre [o meglio si erano previsti due al massimo tre ripetizioni del giochino, arrivati a quota quattro la tuta ha sbarellato]
Quello che non potevamo prevedere è l'improbabile storiella dei due studiosi che fanno da cornice alla narrazione della vicenda della psicologa dell'età evolutiva, che non si capisce come faccia il salto da furiosa schizofrenica a valente insegnante, perché non è raccontato; privilegiando l'allacciamento dei corpi in pose plastiche che vorrebbero richiamare Intimacy, senza riuscirci. [d'accatto è l'idea di far risalire a quel rifiuto di crescere, a quell'abbarbicarsi all'infanzia - legandola oltretutto al trauma della morte della sorellina - la futura capacità pedagogica della sperimentatrice di metodi libertari adottati in asili bianchi invisi al regime stalinista].

I due studiosi nostri contemporanei sembrano creature catapultate a Mosca (e a Rostov nell'unica sequenza che ha salvato la vita al nostro collaudatore, perché la tuta ha potuto riprendersi grazie alla bella idea di bookcrossing finale con il ritorno del diario in quella stessa panca di seduta lignea nella chiesa della strage a cui l'ebrea Spielrein aveva affidato la sua storia) e che non sanno bene cosa fare, nel tentativo di duplicare l'amore di Jung e della sua protegée. Ad ogni intercalare del loro mondo di false preoccupazioni la tuta rilasciava un fluido ritardante per i riflessi, per evitare che il collaudatore anticipasse le battute, il metodo è servito fino al momento in cui il vecchio ha cominciato a narrare di quel bambino sotto il tavolo: immediato è stato l'urlo («È lui!») promanato dalla gola dello spettatore, prima di intrecciare le dita come il vecchio Fantozzi televisivo [è ancora in attesa della scimmia, unico antidoto per disgiungerle, se non dovesse riuscire il primate si chiama Giucas Casella, unico figlio di Termini Imerese che ha previsto - di qui la definizione di "mago" che l'accompagna - la chiusura degli impianti Fiat: infatti ha fatto il mago e non l'operaio].

Solo Stalin è l'unico responsabileL'elemento letale contro cui non si potè nulla è l'improntitudine con cui Faenza rilancia l'idea, in cui si è crogiolata a lungo la sinistra, che finché ci fu Lenin la rivoluzione sovietica fosse anche una spinta libertaria; qui il povero Majakovski diventa un'icona tragica e la sua morte fa da spartiacque tra libertà e svolta autoritaria. Contro questa miscela di ingenuità, falsità storica, illusione e rappresentazione di un'utopia fatta a pezzi non esistono ancora tute capaci di sopportare un tale insieme di nefandezze; il nostro modello ha resistito persino al figlio di Stalin inserito negli asili bianchi, irrecuperabile perché la rivoluzione era perfetta, l'unica variabile degenere era Josip Vissarionovic Dgiugasvili, di cui si emette la diagnosi: pazzo lui e tutti i suoi discendenti. L'approssimazione della distribuzione di responsabilità supera di slancio l'intero film, che però è improntato proprio su questo pressapochismo da bar, simile e simmetrico alle stesse affermazioni da bar che provengono dalla visione storica e dalle castronerie di Berlusconi [in corso d'opera si erano fatte alcune modifiche alla tuta, rivelatesi indispensabili dopo alcune affermazioni dottrinarie che nella loro apodittica vuotezza avevano segnalato questa propensione a pontificare a vanvera; l'ultima a cui fu sottoposta a dura prova la resistenza della tuta è stata: «L'amore deve essere più forte della paura»]

 Di questo film si salvano:
La bella sequenza del ballo in manicomio, quando la dirompenza di Sabina trascina nella danza della Balalaika il compassato Jung sotto gli occhi esterefatti degli psichiatri da elettrochoc e contenzione. Una scena sovversiva degna di Basaglia, ineguagliata dal resto del film, anzi piuttosto estranea.
L'idea di ricollocare il diario nel luogo del ritrovamento, quasi a voler far riprendere la narrazione da qualcun altro che nuovamente lo riporta alla luce e lo tratta in modo più serio.
Del resto si può tranquillamente fare a meno.
[probabilmente la scimmia che fa da transfert per "slegare" il bambino-vecchio era stata coinvolta nella pellicola senza la "tuta" antivaccate e perciò aveva dovuto essere rinchiusa]

Prendimi l'anima - Roberto Faenza

Questa è l'anima del sottor Jung