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NEMMENO IL DESTINO
Un bookcrossing faulkneriano innesca
un doppio legame letterario tra il romanzo di Bettin
e il conseguente film di Gaglianone:
una visione della pellicola a Torino

I danni della religione

Sceneggiatura: Daniele Gaglianone, Giaime Alonge, Alessandro Schippa
Fotografia: Gherardo Rossi – Montaggio: Luca Gasparini - Musiche: Giuseppe Napoli
Interpreti: Mauro Cordella, Fabrizio Nicastro, Giuseppe Sanna, Lalli, Gino Lana, Stefano Cassetti
Italia, 2004 – colore 110’ – Distribuzione Fandango

Perché proprio loro? Perché non altri? Quale via del destino ci ha condotto a entrare nello stesso supermercato, a passeggiare nello stesso reparto degli alcolici, nello stesso momento…, se la vita ha un senso, nel caso remoto in cui ce l’abbia, è rispondere a questa domanda.
Beh! Io, a mio modo, ci provo. Spesso, però, non riesco a sentire quel valore, da sempre decantato, dell’unicità dell’esistenza umana.
Pare che ogni giorno i luoghi che frequento si affollino di persone tra loro simili. 
Il reparto alcolici di questo grande supermercato è una situazione che calza a pennello. Tre categorie: giovani, vecchie e barboni. Ad ogni categoria corrisponde un comportamento.
Giovani: ridono, scherzano e si raccontano aneddoti etilici, spesso perdono molto tempo a decidere quale sia l’alcolico che sballa di più o alla quantità, sempre molto più alta delle loro capacità effettive, di liquido da comprare.
Vecchie: discrete, lente e silenziose, carrello mezzo vuoto, ma con una apparente immagine di normalità… carne, pasta, formaggio, ma in quantità sempre, incredibilmente, troppo basse; vagheggiano fintamente disinteresse tra gli scaffali dei superalcolici, prendono bottiglie in mano e, saggiamente, dissimulano, leggendo con interesse l’etichetta, la loro vera intenzione, comprare gli alcolici più economici, di cui fanno gran rifornimento.
Barboni: dal passo claudicante, ma decisi, il cartone di vino più economico e via! Verso un’altra sbronza!
Io, a differenza di loro, che almeno anagraficamente cambiano connotati, sono sempre qua a comprare qualche cosina da bere: analizzo, osservo, ma poi alla fine la mia scelta ricade sempre sul whisky. Se ci fosse qualcuno, più bravo di me nell’osservare (o forse solamente più esterno), riconoscerebbe in me un’altra categoria di cliente, ma questo non mi preoccupa, ho cose molto importanti da fare.
Quindi faccio la coda, canticchio, pago ed esco.
Il largo viale brulica di gente, di parole e di rumori, cammino alla volta della stazione. La lunga sfilata di negozi e di case comincia a diradarsi, diminuisce la folla e posso godermi, finalmente, il suono luccicante del tappo svitato dalla bottiglia. Usanze che ti fanno stare meglio, ordinano la tua mente su strade sicure. Ripeto il gesto lentamente, più volte. Avvito e svito il tappo, usando solo il pollice e il medio. Aspetto di essermi soddisfatto del gesto e del suono dopodiché mi godo un lungo sorso. È mattina, il sole è timido e dona solo i primi piccoli indizi del suo calore. Mi sciolgo, alzando gli occhi verso il cielo. Abitudini piacevoli, semplici, ma efficaci.
Mi fanno ricordare mio padre e le giornate passate con lui.
Preferiva il brandy e incominciava presto anche lui. Gli stessi gesti misurati e ripetuti, con una mano stringeva la mia piccola e impaurita, con l’altra svitava e svuotava la bottiglia. Camminavamo per strada tutto il giorno e osservavamo la gente, giocavamo a indovinargli la vita: “Questa ha una famiglia numerosa, guarda quanta spesa porta a casa!”, “Povero ragazzo secondo me la ragazza gli ha dato bidone”… e avanti così. Ci riempivamo gli occhi di queste strane coincidenze; tra noi seduti lì e loro che passavano. Andavamo spesso al mercatino delle pulci, a godere anche lì di strane coincidenze tra noi lì che passavamo e loro, gli oggetti seduti sulle bancarelle.
A volte, quando mio padre esagerava col bere, non mi piaceva stare lì. Lasciava la mia mano e iniziava, dondolando su se stesso, a sfogliare giornalini porno. Ero piccolo e mi sentivo solo, per attirare la sua attenzione correvo di qua e di là per tutto il mercato, accattando oggetti di qualsiasi sorta e urlando “Papà, papà, comprameli, dai, dai”. Lui non ascoltava, con gli occhi semichiusi, dondolando avanti e indietro senza sosta, piangeva, guardando quelle donne nude che si masturbavano con falli giganteschi. La bizzarria dei suoi comportamenti non era dovuta del tutto ai suoi problemi con l’alcol. Si vede che la mamma gli mancava molto. Anche a me manca…
Quando rinsaviva con le guance segnate dai rivoli delle lacrime (sì, mio padre non amava molto lavarsi e, sulla sua faccia nera di sporcizia, le lacrime lasciavano strisce di un altro colore), mi stringeva più forte di prima e mi portava via.
“Vedi, tua madre tanti anni fa è partita per un viaggio molto lontano, per cercare lavoro e non è ancora tornata, dobbiamo andare in stazione e aspettare che il suo treno arrivi”, mi spiegava tutti i giorni, biascicando e tossendo. Camminavamo allora fino alla stazione e ci sedevamo sulla panchina del binario sedici, aspettando e bevendo. Mio padre, ubriaco com’era, s’addormentava. Io stavo seduto ancora un po’ e aspettavo che arrivasse un treno. Tutti in stazione ci conoscevano e ci salutavano. Non è mai arrivato un treno sul binario sedici. Con alcuni scossoni svegliavo mio padre e andavamo a dormire a casa. Il giorno dopo era uguale; continuammo così fino a pochi giorni fa. Di giorno al mercatino, la sera al binario sedici. Ad aspettare la mamma.
Quella sera mio padre era più sobrio del solito, rimanemmo seduti fino a notte inoltrata, qualcosa nel suo sguardo avrebbe potuto, col senno di poi, presagire qualcosa; essendo tardi mi addormentai subito. La mattina dopo la luce del sole era offuscata da un’ombra che dondolava lentamente. Volsi lo sguardo verso la finestra per vedere cosa si frapponeva tra la luce e il mio cuscino. Un corpo a penzoloni in mezzo alla stanza roteava, lentamente, come un pendolo. Il corpo di mio padre.
Solo un biglietto rimaneva di lui.
“Il sedici è un binario morto, vado dalla mamma. A presto”.
Presi la bottiglia che aveva lasciato sul comodino e bevvi il mio primo sorso.
Sono arrivato in stazione, mi siedo sulla panchina e mi chiedo perché mio padre non mi ha portato con sé dalla mamma.

Aspetto qui al binario sedici che arrivino per chiederglielo.

racconto di Luigi Giroldo 
coetaneo di Ferdi, Ale e Tony

Ale, Ferdi e Tony

Il racconto che fa da prologo alla recensione è stato scritto da un giovane della medesima età di Ale, Ferdi e Tony, i tre protagonisti del film Nemmeno il destino di Daniele Gaglianone. Ho scovato lo scritto di Luigi in mezzo alle pagine del libro di Faulkner, L’urlo e il furore: un bookcrossing, stimolato forse dalla trasmissione Fahrenheit di Radio3, abbandonato sul greto del torrente Sangone, sotto un pintone di vino vuoto. Confesso di averlo letto prima dell’uscita del film nelle sale, quando già conoscevo il romanzo di Gianfranco Bettin, a cui il regista fa esplicito riferimento nell’opera omonima. A visione compiuta, quasi fosse un segno del destino, non ho potuto fare a meno di ricordare di essermi imbattuta nella lettura di quel raccontino e poiché poche righe vergate a mano al fondo dello scritto, seppur con una scrittura nervosa, permettevano a chiunque si fosse imbattuto in esso di farne l’uso ritenuto più opportuno, ho pensato fosse legittimo pubblicarlo, in quanto a mio avviso contiene numerosi ingredienti che sostanziano l’opera del regista torinese, ma non solo… credo sappia tradurre quelle immagini in forma di tessitura letteraria, restituendo - con il vigore e l’essenzialità tipiche di uno sguardo adolescenziale - l’impossibilità di sentirsi padroni del proprio destino e al contempo l‘ineluttabilità di sfuggire ad esso, qualunque sia o potrebbe essere in futuro. I due testi, quello filmico e quello da me scelto per corroborarne la portata immaginifica in veste cartacea, hanno molti elementi in comune: entrambi si situano in quella zona grigia che fa da sfondo alla relazione tra genitori e figli, che, pur lasciando spazio a personali cammini di dolore, fatti di riconoscimenti nel destino altrui, lascia aperta la strada per una riconciliazione, debole, forse persino postuma (non a caso avviene in momenti drammatici), attenta però a mantenere in vita un potenziale, seppur immaginario, spiraglio di comunicazione.

Ferdi decide di raggiungere quel treno sul binario sedici prima del padre, galoppando in aria con il suo motorino, perché avverte di essere come lui e in quel momento la sua ribellione crudele nei confronti del genitore si smorza in un precoce e subitaneo rispecchiamento, che vuol essere una dichiarazione di amore sincero e… non una condanna, proprio come avviene nell’epilogo del raccontino di Luigi, che inverte la scelta suicida, attribuendola stavolta al padre, senza giungere a esiti differenti, perché i personaggi attendono proprio di ricongiungersi a quel destino, a cui sono inesorabilmente affezionati.

Tony se ne è andato prima degli altri, forse raggiungendo a piedi quel treno fantasma, che rappresenta per lui un posto sicuro o migliore di quello che sta abitando.

Ale sceglie invece di continuare ad accompagnare discretamente la madre nel suo quotidiano deambulare verso un fantasmatico binario sedici, perché dal passato non ci si può separare… Il bianco e nero della scena finale li mostra, infatti, intenti a fischiettare insieme una canzone… Nessuno

 

 

Stellin: Adele e Ale 

 

Nessuno, ti giuro, nessuno, nemmeno il destino ci può separare…” cantavano Betty Curtis e Wilma De Angelis al Festival di Sanremo tanti anni fa (quanti quelli da me annoverati dalla nascita in poi), ma io ricordo meglio la successiva versione interpretata da Mina, che modulava lo stesso motivetto in maniera aggressiva, al punto tale da annullare, davvero, con la potenza dei suoi vocalizzi, la forza di qualsiasi destino.

“Temi il destino, ma non rispettarlo, poiché non ha rispetto di te”, afferma la madre di Ale nel libro di Bettin.
“Dondolava il corpo a ritmo e ripeteva sempre la stessa strofa, infantilmente, come se non ne ricordasse altre, poi sostituì alle parole dei lallallà e dei mugolii nei quali inseriva brani d’improvviso rammentati: tutto il mio mondo comincia con te lallallalla e finisce con te mmmmmmmmm la gioia infinita che sento con te / soltanto con te mmmmmm nessuno nessuno nessuno / nemmeno il destino …” (Gianfranco Bettin, Nemmeno il destino, Feltrinelli, Milano 1997, pag. 56).

 

Alessandro, Ferdi e Tony, compagni di scuola, sono tre amici, adolescenti di 15-17 anni, vivono, con quel che resta delle loro famiglie, nella profonda periferia torinese, ma potrebbe essere una qualsiasi realtà postindustriale (Bettin sceglie infatti di ambientare il suo libro a Mestre, Porto Marghera), popolata da relitti di fabbriche smantellate e cantieri improvvisati dall’oggi al domani, per cercare di riconvertire quelle macerie in nuove strutture innovative, magari destinate a far spazio a ulteriori mega multisale cinematografiche, addette a sfornare popcorn per le famiglie della domenica!  

Un territorio segnato dalle ferite che già Armando Ceste e Marco Revelli - tanto per rimanere in questa martoriata Torino - vanno marcando come mutilato delle sue radici, divelte ed emblematicamente (e retoricamente) esposte con tubi arrugginiti, portati alla luce per evidenziare lo stesso disagio dei tre ragazzi di Gaglianone, anche lui valente documentarista formatosi con Paolo Gobetti: il tessuto sociale spaesato dalla deindustrializzazione crea queste sacche di irrequietezza senza futuro immaginabile, che la texture di Gaglianone fotografa anche con una sensibilità che un documentario non potrebbe adottare.

“Sono stato colpito dall’ambientazione e dall’atmosfera, in cui questi ragazzi si trovano a vivere, perché in qualche modo mi sono sentito a casa [N.d.R. non a caso la stragrande maggioranza delle location scelte dal regista si trovano nella periferia ovest di Torino, dove lui ha abitato da adolescente]. Sono cresciuto nella periferia di Torino, e quest’ambiente di transizione corrisponde anche al momento di passaggio esistenziale, che stanno vivendo i ragazzi: è il momento in cui smettono di essere dei bambini e iniziano a essere qualcos’altro. Sostanzialmente, il narratore del libro è Alessandro. Nel film, la rappresentazione è più corale, la figura di Alessandro emerge via via che si avanza nella storia. Il fatto di non aver avuto un solo punto di vista ha reso possibile, paradossalmente, un flusso di coscienza più personale. Anche se ho fatto alcuni cambiamenti, il senso del romanzo è rimasto. Per esempio, nel film, Ferdi possiede L’urlo e il furore di William Faulkner. Quando Bettin ha visto il film, mi ha detto che era il suo libro preferito, e che avevo addirittura scelto la stessa edizione [N.d.R. Medusa-Mondadori] che lui possedeva a casa” (intervista a Daniele Gaglianone curata da Gabrielle Lucantonio, pubblicata su Il manifesto).

Il primo, Alessandro, è figlio di un padre sconosciuto e di una madre fragile dal punto di vista mentale: orfana ancor prima di lui, è incapace di rimuovere le violenze, fisiche e psicologiche, cui è stata sottoposta in passato: un risentimento segreto avvolge la sua vita e anche il ragazzo fatica a ricostruire gli anni della sua infanzia, covando vieppiù una ribellione sorda e senza parole.

“La malattia di mia madre aveva incominciato a farsi evidente quando avevo undici o dodici anni. In certi momenti sembrava completamente smarrita. Si fermava d’improvviso dov’era, in mezzo alla stanza, e restava a lungo così, immobile; oppure, seduta su una sedia in cucina, fissava lo sguardo in un punto indistinto, senza dire niente, senza muovere un muscolo. Altre volte invece, a sorpresa, mi si rivolgeva come se fossi stato ancora un bambino. Non solo usava il linguaggio che si usa coi bambini, ma si riferiva a cose e situazioni come se fossimo tornati indietro nel tempo, agli anni della mia infanzia. Poi quei momenti finivano, duravano poco, e tutto sembrava di nuovo normale. Me ne stupii all’inizio. Mi capitò perfino di divertirmi, in quelle situazioni. Col tempo, però, intuii che in lei cresceva qualcosa di oscuro, che non riuscivo a spiegarmi, forse una pena, un dolore della mente. Qualcosa, comunque, che la spingeva altrove, lontano nel passato, nel buio” (Bettin, op. cit., pp. 40-41).

Educata presso un convento di suore, che per compassione continuano a riservarle un’occupazione in qualità di sguattera, la madre (magistralmente interpretata dalla cantante Lalli, premiata al recente Sulmona Cinema, che ha dato un riconoscimento per la regia anche a Gaglianone) alterna momenti di lucidità a fasi di disorientamento mentale, che la catapultano in un altrove, che in realtà è una deriva spazio-temporale: un non-luogo dove si situano i suoi fantasmi, compresi quelli evidenti di uno stupro subito in gioventù, sottaciuto dall’ipocrisia di un ambiente cattolico complice (l’ultimo film di Almodovar docet!), contigui a quelli del suo diventare gradualmente e in solitaria madre. È una mamma buona, ad ogni modo, quella di Ale, seppur relegata nelle quattro pareti domestiche o costretta a deambulare negli stanzoni di un istituto religioso. Si ricorda ogni anno del compleanno del figlio, anche se sbaglia di continuo la sua età e lo festeggia sempre, predisponendo la medesima torta, come fosse un fanciullo di cinque anni! Eppure è una donna che ha subito un trauma che non sa rimuovere dalla memoria: ne conserva evidenti tracce anche dal punto di vista fisico, quando la malattia assorbe la sua vita, trapiantandola in un luogo inaccessibile anche per il figlio.

“C’è stato forse un tempo in cui le cose, per te, avevano un senso pieno e limpido e quel senso, il motivo, ero io, quel figlio appena nato al quale dare amore e accoglienza. Poi qualcosa è avvenuto. Qualcuno è comparso, o è tornato, a chiedere, a pretendere, e proprio in nome mio. Quando poi, finalmente, se n’è andato, un altro tempo, un tempo sospeso, non più nel ricatto e non ancora nella malattia – una misera, tenera età felice – è stato possibile. Mi svegliavi la mattina e insistevi perché andassi a scuola. Dalla strada, ti salutavo mentre mi guardavi dalla finestra tra i gerani del davanzale. Facevamo i compiti, quando rientravo dalle mie avventure nel mondo con Ferdi e Tony e gli altri. Mangiavamo insieme. Avevi una vestaglia azzurra trapunta di piccoli fiori colorati. Avevi un cappotto blu e una sciarpa a quadri rossi e neri. Avevi una camicia gialla senza maniche con il sole e il mare attraversato dalle vele bianche. Parlavi poco. Ridevi. Il tuo odore era l’odore della nostra casa. Ma c’era già, lavorava già dentro di te, e fra di noi, la pena. Lavorava il destino” (Bettin, op. cit., pag. 101).

 

In compagnia dei coniugi Cardi

 

Sarà sempre un motivo destinale a far scattare una sorta di complicità tra Ale e i coniugi Cardi: “Il signor Angelo era bidello nella scuola media che frequentavo. Era un signore affabile, minuto, alle soglie della pensione, che sembrava più vecchio a causa dei capelli tutti bianchi. Era molto benvoluto, a scuola, per il suo carattere bonario e premuroso. Sua moglie, la signora Anna (N.d.R. interpretata nel film dalla madre del regista), era anche lei piccola e magra, ma aveva un aspetto più giovanile” (Bettin, op. cit., pag. 15).

La coppia aveva perso anni prima, a causa di una malattia, un figlio che si chiamava Alessandro, proprio come il protagonista a cui assomiglia persino fisicamente, per questo si affezionano a lui e provano piacere nel frequentarlo. Quando verranno sfrattati dal loro alloggio, dove hanno trascorso una vita, di fronte all’idea che verrà distrutto anche il dipinto che il figlio aveva disegnato sul muro della sua camera, Ale non ha timore a compiere una violazione di domicilio per accompagnare i due anziani ad accarezzare per l’ultima volta quel prezioso ricordo visivo.

“Nell’ombra densa della casa vuota le pareti bianche della camera sembravano pallide coltri. Si muovono? C’è anche un terremoto che scuote la casa, insieme alla memoria e al cuore? Mi avvicinai alla parete di fronte alla quale, un tempo, c’era il letto di Alessandro. Vidi una chiazza bianca, e sotto, sul pavimento, scaglie e polvere d’intonaco. Avevano incominciato a raschiare. Ma il muro doveva essere ancora, in gran parte, dipinto. Accesi un fiammifero. In quei pochi secondi di luce, scorsi il cielo, il sole, le rocce viola rosa lilla la luce illuminò le pareti le rupi il dipinto era lì” (Bettin, op. cit., pag. 51).

Compiuto il nobile gesto, il ragazzo tornerà notte tempo nell’alloggio per appiccare il fuoco e poter raggiungere “in quei pochi secondi di luce” quel panorama affrescato da quel figlio compianto dall’anziana coppia: sarà l’ultimo a conservare nello sguardo quella magica visione, che ritroverà in natura durante la fuga dell’epilogo, quando potrà davvero entrare nel dipinto, arrampicarsi su quelle rocce, per contemplare uno scenario a lui familiare. Pagherà cara Ale la sua ribellione: dovrà scontare alcuni anni in un centro di rieducazione minorile, ma a fine percorso, lasciati i colori in quel paesaggio di montagna evocato dall’affresco incendiato, si ricongiungerà alla madre in un giardino di rose, il posto da lei definito come il più bello e il più profumato del mondo, dove andavo a consolarmi con i fiori, quand’era stagione, o con la sua tranquillità appartata, serena, anche d’inverno, per cantare insieme quel famoso motivetto, mentre la fotografia li immortala in uno stupendo bianco e nero, il colore della maturità.

“Gliela cantai sottovoce. La cantò anche lei, sussurrandola. Sorrideva, questa volta. Io, quello che sentivo era strano. Era commozione, ma non sapevo che lo fosse. Era dolore, e questo lo avvertivo. Ma c’era anche una gioia remota, che riconoscevo senza poterla nominare. Strinsi più forte la sua mano” (Bettin, op. cit., pag. 95).

 

Ferdi e il padre

 

Ferdi assomiglia invece al ragazzo del racconto di Luigi, di cui condivide non solo il destino, ma anche le scelte fatte dai genitori: una madre assente, un padre ubriacone, finito in pensione anticipata a causa di un’intossicazione contratta in fabbrica, restio a farsi operare, perché ha visto morire ormai troppi colleghi di lavoro, cammina per strada, barcollando su se stesso o dormendo sulle panchine dei giardinetti.

“Ferdi, se lo incontrava ridotto così, lo strattonava via dalla strada e lo riportava a casa. Non sopportava di vederlo in quel modo. Una sera d’estate lo vide, ubriaco e in mutande per il caldo, che ululava come un cane. Ferdi gli corse incontro puntando il motorino su di lui, accelerando al massimo. Sembrava che volesse investirlo. Il padre era paralizzato in mezzo alla strada e lo guardava con gli occhi sbarrati. Forse era impaurito, o non capiva. Giunto a un paio di metri da lui, Ferdi alzò la ruota anteriore del motorino, facendolo imbizzarrire, fino all’altezza del viso inebetito del padre. Lo evitò per un soffio. Poi corse via, lasciandolo immobile e stranito in mezzo alla strada” (Bettin, op. cit., pp. 29-30).

Ferdi alzerà ancora una volta la ruota anteriore del suo motorino, in segno di saluto, non per travolgere il genitore, ma per lanciarsi a tutta birra dalla terrazza di un capannone, preferendo anticipare il destino con un gesto estremo: raggiungere prima del padre la libertà con un “atto di forza librato nel vuoto”, che gli dà il tempo sufficiente per comprenderlo, smettendo d’essere triste e arrabbiato al contempo. 

“La vita è un bambino che piange e che chiama, e nessuno che risponde – è solo questo la vita, se uno è soltanto un bambino che piange. Si era messa in agguato, la ladra. Aspettava, per poi squadernare il suo conto, e pretendere magari di chiamarlo destino. Ferdi era volato via. Preferivo pensare così, che si fosse perso tra la luna e la notte, lassù, dove non restano tracce di sangue. Mi ero arrabbiato, con Ferdi, perché se n’era andato anche lui. Ho pensato che fosse volato in un posto migliore, dove la luce era pura e l’aria pulita. Era con Tony, forse. L’aveva ritrovato da qualche parte nel mondo. Forse erano… lassù in montagna” (Bettin, op. cit., pag. 43).  
 

Nessuno... nessuno... nemmeno il destino ci può separare

 

Daniele Gaglianone, che aveva già dimostrato talento nel dirigere anziani (il suo film precedente, I nostri anni, narrava infatti l’impresa di due vecchi partigiani - a cui si aggiungeva un terzo compagno ucciso dai fascisti - impegnati in una simpatica vendetta tardiva, che quindi avevano già guadagnato la "montagna" prima di lui), riesce a trovare la chiave linguistica adatta alla maniera di scrivere di Gianfranco Bettin, adottando lo stesso montaggio sincopato e dinamico di frammenti altalenanti tra cronaca e fiction; le sue inquadrature descrivono i movimenti, ma c'è una tale frenesia che talvolta non vengono completati e spesso demandano allo spettatore l'incombenza di riempire gli spazi lasciati vuoti dai movimenti di macchina. Il suo atteggiamento esplorativo si manifesta in particolare nell’utilizzo di uno speciale procedimento fotografico che all’interno dell’inquadratura contrasta i colori, sovraesponendo le fonti di luce e rendendo ancora più scure le zone in ombra: una cifra stilistica personale resa ancora più evidente dall’intento di adeguare la fotografia al mutare dell’interiorità dei personaggi, che si traduce in una grana dell’immagine molto particolare. L’effetto può risultare a volte spaesante, perché intreccia senza soluzione di continuità il piano del reale con quello fantasmatico, ma la sfida lanciata dal suo modo di girare è originale e va senz’altro raccolta, anche nella sua portata allucinatoria.
 

Paola Tarino
Luigi Giroldo