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Diario 4 - 6 settembre

Retribution

Con Sakebi (Retribution) Kiyoshi Kurosawa impressiona la retina dello spettatore con meravigliosi straniamenti, tra noir ed horror. Nell’origine della manifestazione ectoplasmatica c’è la voluttà estetica, spettacolare di sentire, paradossalmente rispetto alla non consistenza, la presenza materiale del fantasma. In questo caso la carnale donna in rosso volteggia e ulula per i luoghi attraendo lo sguardo verso orizzonti sempre poco definiti dell’ambiguità tipicamente noir. Il cinema di Kiyoshi Kurosawa è la prova di un assemblaggio definitivo, già avvenuto tra generi, laddove le false piste thriller noir sono incrinature, erosioni dove appare improvvisamente l’altra faccia della storia, lo spettro di un’alterità che s'incarna in un nuovo fenomeno di manifestazione ctonia. L’etichetta di “serial killer” subisce un’introversione completa e risucchia i personaggi nella loro più profonda emotività, paesaggio di scambio tra correnti libidiche, inconscio che produce ulteriori detour alla narrazione. Il fantasma è il segno di una creatività iconica che lavora sulle tracce, sulle memorie degli immaginari. Per questo è impossibile dare una definizione del nuovo genere immaginativo, filone che scorre in tutto il cinema contemporaneo e che assume i fantasmi come corpi di pura sintesi idealistica. Il fantasma è diventato organismo complesso, perché non è semplicemente il trapassato che torna, ma la pulsione desiderante che diventa fenomeno da guardare, di puro e semplice spettacolo. Non è infatti un caso, che proprio negli ultimi anni, la rappresentazione degli spettri abbia subito, grazie certo alla produzione di immagini filmiche e non, le più rilevanti variazioni, allontanandosi in modo clamoroso dalle sue figurazioni classiche. Pur lontano dal suo capolavoro, Cure, Kiyoshi Kurosawa con Sakebi (Retribution) continua magnificamente il percorso di sgretolamento della macchina cinema (tradizionale) verso altri corpi (im)materiali in assoluta libertà di visione. Proprio il movimento dell’occhio produce corto circuiti e spaesamenti laddove incontra elementi del tutto privi di riconoscibilità. Kurosawa è uno dei pochi cineasti che “linearmente”, con i piano sequenza, riesce a produrre un cinema sovrannaturale, metafisico, ricordando a tratti il percorso “nel vuoto” di alcuni cineasti occidentali come François Ozon (Sotto la Sabbia) e Danny Boyle (The Beach e 28 Giorni Dopo).

 

The Wicker Man - Neil Labute

The Wicker Man di Neil Labute è il classico film brutto, senza nerbo, a tratti incomprensibile quando si ostina a rendere “pulito”, poco controverso, edulcorato, qualsiasi elemento inquietante (ammesso che ce ne siano per davvero). La prima sequenza, che è contenuta peraltro anche nel trailer, sembra indicare, partendo dall’enigmatico incidente su strada, il percorso minaccioso del protagonista Nicolas Cage alla ricerca della bambina Rowan, all’interno della comunità chiusa di Summersisle retta da un matriarcato votato al misticismo pagano. Ma le premesse non si trasformano mai in territorio visivo scostante. Anzi, il modo di girare di Labute, molto regolare, poca camera a mano e soprattutto le luci abbaglianti della fotografia che rendono paesaggistica l’“escursione sull’isola”, trasformano il film in una tiepida fiaba fantastica horror. Come se la produzione, o il regista o chi altro, aspirassero ad un’opera sulla falsariga di Harry Potter. Di fatto Labute non segue un sentiero abbastanza visionario, né si preoccupa di alimentare la tensione attraverso un racconto che poteva avere facilmente tratti angosciosi per la scomparsa della bambina.

I primi film di Labute, In the Company of Men e Your Friend and Neighbours, ben più crudeli e cinici, sono ormai lontanissimi…

 

Dong - Zhang-ke Jia

Dong di Zhang-ke Jia è struggente nell’inafferrabile tenerezza esplorativa che fa coincidere tensione dello sguardo e contatto del corpo su territori, paesaggi umani e non, impregnati del solo senso dell’umanità in viaggio tra un passato remoto, un’antichità sempre affiorante ed un futuro prossimo, ma anche lontanissimo che lacera senza soluzione di continuità i limiti dello spazio tempo, crea luoghi nuovi, che sono spaesamento, terrore, ma anche curiosità, speranza. L’intensità del visivo appare alimentata, accresciuta, dalla disposizione visiva del quadro, della pittura che si fa letteralmente a partire da scorci umani, da organismi collocati su uno spazio tempo imprevisto che si tenta di fissare di fronte al dinamismo perpetuo del divenire cosmico. Il pittore Liu Xiaodong visita la zona delle Tre Gole per realizzare la serie di pitture ad olio Un letto caldo. L’occhio del pittore dovrà cogliere il tempo di sospensione, dodici operai che riducono in polvere un edificio, il presente che sta per essere spazzato dal futuro dell’alluvione, la quale sommergerà duemila anni di Storia. La pittura poi si sposta in Thailandia, a Bangkok, dove altre dodici donne fanno da modelle per un ulteriore ritratto sospeso, indeterminato, indolente, perché ancora una volta sono soltanto i corpi a parlare, comunicare un senso dell’anima, l’anima dell’Asia secondo i propositi del regista, Zhang-ke Jia che dopo, The World e Platform, presentati entrambi a Venezia, continua il percorso straordinario di un cinema sognante, ad occhi aperti, radicato alla terra, rosselliniano.

L'intouchable - Benoit Jacquot

Poche parole su L’intouchable di Benoit Jaquot che non possiamo considerare come storia della ricerca di un padre. Intorno a tale evento Jaquot non riesce a produrre adeguate sensazioni visive. Il film si lacera completamente non appena la macchina da presa “precipita” in territorio indiano. Qui basta guardare la gente che osserva curiosa l’occhio della macchina da presa “intrusa” e i roghi all’aperto per le cremazioni rituali che appaiono come brutale smaltimento di cadaveri. In questa parte il principio dell’incertezza e dell’erranza danno al film quell’eleganza contemplativa, voyeuristica, e quella rottura degli argini della pudicizia che spesso sono garanzia di grande cinema. E non è un caso che l’attrice “tentenni” più del dovuto quando vuole evitare una scena di sesso esplicita con il partner attore sul set e quando nello stesso set desideri mantenere una distanza tra lavoro e corpo, una lontananza che l’occhio del cinema, duro e violento, non consente.

A Guide to Recognizing Your Saints - Dito Montiel

A Guide to Recognizing Your Saints di Dito Montiel non è abbastanza entusiasmante come un’opera di John Singleton (Four Brothers). Il ritratto di alcuni giovani che vivono in strada, nei quartieri periferici delle metropoli statunitensi, New York, tra piccoli e grandi conflitti familiari è alimentato da movimenti (della mdp) abbastanza prevedibili. E poi la crescita, la fine dell’adolescenza in cui prevalgono assalti e turpiloqui, l’età adulta, il lavoro, l’addio al quartiere, alla famiglia, il ripensamento di alcuni affetti, il ritorno nei luoghi dell’infanzia, l’incontro di vecchi amici. E anche il cambio di ritmo, un occhio più (ri)posato sulle cose che in fondo preferisce seguire l’andamento psicologico impresso all’opera più che cimentarsi in viaggi sperimentali. Si vede quindi che è un’opera prima scritta aprendo lo scrigno della propria intimità e che non tenta il salto nel baratro di una visione meno agganciata al copione.

Fallen - Barbara Albert

Fallen di Barbara Albert (Nordrand) è un pamphlet sulla vita. Che ne sarà della vita di un gruppo di cinque donne? La Albert, ed è una nota positiva, non si pone minimamente il problema del cinema come momento da “farsi” e persegue senz’altro un’idea genuina, innocente, di rappresentazione, articolata come raccolta di testimonianze offerte da una serie di corpi femminili. Per dimostrare una varietà, realtà differenti che potrebbero coincidere con qualunque diario generazionale, di trenta quarantenni che fanno il punto della loro vita. E tutto passa attraverso quest’idea fissa: registrare, involontariamente e non, qualche briciola di realtà, un segno forte che rimanga, per affermare la propria presenza di fronte alla vanità sostanziale di ogni progetto di vita. Perché alla fine l’elemento che turba è proprio il grado di interscambiabilità di ogni esperienza. Che si vada da una parte o dall’altra, in fondo è solo una questione di carattere e fortuna. Le cinque donne protagoniste infine possono soltanto simulare un abbraccio retorico al tempo, guardare il futuro, senza la possibilità di qualche garanzia, di una certezza che mai proviene dal loro passato. Il titolo, che delinea un interminabile “cadere”, è emblematico: uno scacco ineludibile è insito in ciascuna esistenza.

 

La stella che non c'è - Gianni Amelio

Gianni Amelio con La stella che non c’è mostra il gap esistente tra cinematografia occidentale e orientale. La prima ha bisogno di storie curiose, personali, che introducono alla storia autentica di visione. La cinematografia orientale invece si fa beffe delle storie, le tradisce, le scompone e va dritto al cuore della verità visiva. Il paragone salta all’occhio proprio con Dong, girato negli stessi territori della Cina, le Tre Gole, laddove l’acqua sommergerà interi paesaggi, spazzando in un sol colpo secoli di Storia e Umanità. Se il film di Zhang-ke Jia si serve solo del filtro “diretto”, della pittura, Amelio s’inventa il caso irrilevante di un ingegnere scrupoloso e ostinato, personaggio molto tipico anche di certa cinematografia d’Oltralpe, che vuole sanare alcune regole della globalizzazione economica, portando un pezzo revisionato e sicuro per il lavoro degli operai, direttamente in una acciaieria in Cina. Naturalmente la storia tra Castellitto e la giovane interprete cinese Tai Ling serve solo a sottolineare le incomprensioni tra culture, a sollecitare confronti più profondi e arditi, tra disposizioni caratteriali che finiscono col rappresentare le caratteristiche psicologiche di interi popoli: non è il caso di discutere se tali osservazioni così vaghe e generiche possano corrispondere a realtà.

La Stella che non c’è è quindi pregevole per lo sfondo (lo sfondo solo in apparenza) che riesce a portare in piena evidenza scenica, oltre naturalmente le pantomime dei vari personaggi. In questo Amelio riesce a cogliere spazi interessanti, lasciando che l’occhio della macchina da presa rilevi vissuti condensati già nei luoghi. E ciò nonostante la presenza ingombrante di Castellitto, il quale è costretto a farsi solo specchio riflettente del mondo che osserva; mentre quando è attivo, tenta di reagire con forza, all’interno di una narrazione che ha i tratti tipici del solito road movie, risulta evanescente la percezione nel film, dentro il film, dell’universo autentico “espulso” esclusivamente dallo sfondo.

 

Fangzhu (Exiled) - Johnnie To

Johnnie To con Fangzhu (Exiled) continua il sogno di un cinema che ha superato la riconoscibilità stessa delle contaminazioni, dei riferimenti esterni o interni. Cosicché il percorso in avanti è sintomo, elemento di una serialità forse sempre in corso nel suo cinema. Come la coalescenza della doppia carne/visione di The Mission. Che coincide con l’invisibile/impossibile coagulazione delle ferite, delle lacerazioni sempre aperte, sanguinanti, negli organismi vivi/morti dei personaggi. Solidarietà tra viventi e consapevolezza del balletto macabro di fronte alla borsa dell’oro, che non può che essere esplosivo, come nei capolavori di Peckinpah, perché il dolore è già stato introiettato, spinto, collocato al di fuori dell’inquadratura, mentre resta agli attori da regolare le sorti di un’altra possibilità di fuga, di un “esilio” perpetuo dell’anima, non collegato ad eventi specifici (Macao sarebbe soltanto una tiepida ispirazione). Tema già condensato nel ritiro di un killer e nel rifugio familiare spezzato, frammentato dalla intrusione e della necessità di “continuare a vivere”, ricucendo il passato per guardare ad un futuro sempre precario ed irto di ostacoli.

L’eticità profonda del cinema di Johnnie To consiste proprio nella quintessenza dell’immagine che è puramente gesto significativo. Cosicché la prima incursione nell’abitazione di Wo suscita il sentimento ossimoro di odio/amore, sentimento che è sempre più dissipato, stemperato ed eliminato dalla sola morale del cinema e delle immagini. Come se Peckinpah fosse infine svuotato da ogni retorica sentimentale e rimanesse soltanto la scena da filmare con ironia emotiva. Ed è l’umorismo sottile il trait d’union delle sequenze, umorismo che non è certo elemento detrattore di una storia, giacché la storia (del cinema) per Johnnie To è un fatto esclusivo di geometrie visive, di emozioni scopiche, di vissuti dell’occhio che si materializzano attraverso la serie di gesti cinematografici. Il cinema di To è un cinema che non ha bisogno della virtualità dei corpi, in quanto i suoi corpi reali sono già proiettati nella virtualità del segno, nell’abilità metacinematografica di essere corpi già oltre la misura dell’organismo, corpi in grado di proiettarsi all’interno di qualsiasi progetto visivo, per dare luogo al cinema veramente libero da pesanti legami con la tradizione.

 

Tachigui: Le Straordinarie Vite dei Maestri Scroccatori di Fast Food - Mamoru Oshii

Tachiguishi Retsuden – Tachigui: Le Straordinarie Vite dei Maestri Scroccatori di Fast Food di Mamoru Oshii è il film d’animazione più interessante visto quest’anno a Venezia. Rispetto a Miyazaki Goru e Kon Satoshi, Mamoru Oshi sceglie l’ambiguità visiva, la simultanea presenza di immagini virtuali e non, come peraltro tenta Katsuhiro Otomo con Mushishi – Il Signore degli Insetti. Solo che qui è cercato l’effetto “marionettistico” delle immagini fisse “in movimento”. Mixando quindi la rigidità insita della fotografia realistica tradizionale con il movimento frenetico della virtualità e gli effetti digitali. Ne viene fuori un film denso di stimoli visivi e nel quale la presenza ingombrante della voce off accentua il livello parossistico dell’operazione. Il racconto è semplicemente paradossale, le avventure dei Maestri Scroccatori di Fast Food a partire dagli anni Quaranta sono simili alle avventure acquatiche di Steve Zissou di Wes Anderson. Il documentarismo serio si scioglie nella autoparodia. Senza mancare per questo alle fonti autentiche di una Storia vissuta. Alla presenza di antichi baracchini di soba fino alla catena di ristoranti Hamburger Tetsu. La storia del cibo è innegabilmente ibridata con la storia viscerale dei popoli, con le tragedie della guerra e i piccolissimi, irrilevanti, eventi della vita quotidiana di chiunque. Da ciò deriva il sostanziale spaesamento nel cogliere il medesimo segno di Potere, dalle uniformi militari ai loghi dei piatti globalizzati. Oshii gira una commedia esilarante, ma è una commedia, come dice lui, “fatta con grande serietà”, laddove parlare di ciò che abbiamo mangiato è il presupposto per interpretare gli anni in cui abbiamo vissuto. E l’invenzione delle gesta dei Maestri del Fast Food è perfetta per immaginare eroi particolari, ma anche gli antierioi e gli eroi trascurabili della Storia, di tutti i giorni.

Ivan Vyrypaev - Ejfoija/Euforia

La prima regia di Ivan Vyrypaev, Ejfoija – Euforia, è un’opera diretta e poco classificabile. Perché nonostante la apparente classicità del visivo, si apre improvvisamente a sguardi lucidi e misteriosi che riecheggiano tutto l’amour fou cinematografico e la fantasia paesaggistica del capolavoro La Morte Corre sul Fiume di Charles Laughton. Ed in effetti più che i corpi straziati, sporchi, mutilati, impasti di terra, sanguinanti, sono le porzioni estese di territorio russo che sorprendono per la penetrante rappresentatività del testo. E neanche le riprese in volo dall’alto sui campi che tagliano come delle forbici il suolo, zigzagano aprendo e chiudendo i piani ed i campi, sono responsabili diretti di questi bagliori violenti che tengono unita la storia alle immagini prepotenti di solitudine, lontananza dal resto del mondo, di quelle casupole perse nello spazio e nel tempo, ma abitate da esseri feroci lontanissimi dal costume prevalente di una civiltà inesistente. Euforia fa cenno alla follia umana, alla inevitabile sottomissione dell’uomo, alla emotività straripante, che decide in fondo di essere spietata verso tutto e tutti, verso ogni elemento del mondo, animali e uomini, sterminati solo per l’incrinatura dell’anima, per lo sfogo dell’ennesima insana passione egoistica, dalla notte dei tempi ad oggi.

 

Altro esordiente alla regia cinematografica, il polacco Piotr Uklanski, dopo un’esperienza di artista visuale, con Summer Love riesce a fagocitare i topoi del genere western, i canoni preferiti dello spaghetti western e soprattutto di Sergio Leone. Uklanski abbatte innanzitutto la mitologia americana del genere, cosicché i personaggi appaiono già corrotti, putrefatti, a cominciare da un’icona del cinema hollywoodiano, vale a dire Val Kilmer. La sua testa decapitata che rotola è la summa di un’operazione di sgretolamento costante di tutte le possibili storie del western. Che diventano solo la serie di aberrazioni umane, materializzate in corpi osceni che si presentano e ripresentano in sequenze oltremodo ripetitive, fino ad una sensazione di estetica loop. Uklanski, attraverso la dissacrazione complessiva del corpo (western), fa un film che è un ritratto nero, sporco dell’anima, laddove proprio gli stereotipi del genere western sembrano cadere a pennello per una rappresentazione di un’umanità decadente e corrotta. Rimane solo l’escrescenza dell’organismo perduto, la sua brutale deriva verso un deserto del pensiero. Senza possibilità di salvezza. Nel mondo di Uklanski tutto è terribilmente Orrore, è il segno dell’assenza desolante di speranza (nell’uomo).

Ho Yuhang - Taiyang yu/Rain Dogs

Il terzo lungometraggio del malese Ho Yuhang, Taiyang yu - Rain Dogs – La Pioggia con il Sole, segue la falsariga del racconto intimo, ma attraverso le sottigliezze di una trasposizione visiva che alterna il campo al fuori campo in modo splendido, laddove è proprio l’immaginario “non visto” a rendere interiore il percorso nel film. La fotografia di Teoh Gay Hian è opportunamente sbilanciata verso il nero, l’oscurità prevalente che avvolge in modo definitivo il senso di un’esistenza, mai al riparo, in assenza di riferimenti e certezze. Il cinema di Ho Yuhang è in grado di alimentare il disagio emotivo proprio con la scomparsa o la esilità dei corpi, con personaggi, esseri viventi, sopraffatti dalla vita, che a stento si sostengono in cerca di un futuro che non si vede. Il cinema di Ho Yuhang è un cinema della fragilità assoluta dell’essere umano, che non è mai espressione diretta, forte, sottolineata, ma semplice curvatura dell’espressione. Come in un minimalismo lontanissimo dalle accademie stilistiche, che si autocostruisce per elementi formali, nettissimi, sempre necessari, mai superflui. Cinema rarefatto, ma nel quale le presenze diventano il segno di un’ansia profonda, le apparizioni di un disagio, un pessimismo cosmico, superato dalla rassegnazione. Nel film non c’è infatti bisogno di registrare visivamente una morte, ma di lasciarla condensare come riflesso sui volti dei personaggi, così come la loro fatica di vivere appare come una ruga profonda, un segno continuamente percepibile, corrispondente a una verità insopportabile, la vita senza invenzione, spettacolo, priva della gioia effimera della falsità. Per questo Taiyang yu è un film estremo, che lascia basiti per la coincidenza beffarda di tenerezza e crudeltà.

 

Inland Empire - David Lynch

Il tanto atteso INLAND EMPIRE di David Lynch è un’opera(zione) che supera i limiti del cinema, per essere installazione, loop di immagini percezioni, riferimenti all’immaginario prodotto da Hollywood, incerta situazione spettatoriale. Lynch supera se stesso, pur rimanendo nei territori attraversati in questi anni. La prima osservazione riguarda l’utilizzo ormai “definitivo” del digitale, come termometro possibile in viscerale correlazione col flusso di eventi contemporaneo. Si può filmare ancora un thriller lavorando sul profilmico e sul fuori campo, ma le caratteristiche cromatiche, le luci del digitale molto sporco rendono direttamente angosciante un’inquadratura senza utilizzo di grandangoli. La messa in scena è certamente molto più curata di quel che sembra proprio per sembrare poverissima e senza mezzi. INLAND EMPIRE rappresenta lo scollamento molto forte da parte di Lynch dalle estetiche tutto sommato magniloquenti dei suoi film precedenti, che avevano un’innegabile eleganza formale equivalente agli standard dei prodotti hollywoodiani di alto budget. INLAND EMPIRE vuole essere “poverissimo”, cerca una privazione essenziale di elementi, per articolare una serie di quadri molto più diretti che in precedenza. A turbare adesso non sono più le situazioni narrative, lo spaesamento non deriva più dalla follia di un racconto, ma dall’aspetto malsano, morboso di ogni immagine, una visionarietà che si affida al ritorno di uno spazio, alla iterazione di parole e personaggi, senza che essi siano mai veramente presenti allo spettatore. Lynch con INLAND EMPIRE giunge al suo film “definitivo”, ma che è anche una possibilità, un’apertura per il presente immaginario che è cambiato radicalmente. Certo già Lynch con altre opere come Twin Peaks si era reso conto delle derive immaginarie delle produzioni seriali, del coacervo fantasmatico di internet, per questo nel 2006 imprimere a un film la suggestione evocativa di altri immaginari risulta quasi impossibile. Però INLAND EMPIRE riesce ad evocare i fantasmi propri di altri media, gli spettacoli più sperimentali dalla televisione al teatro ai videogames, laddove insomma gli elementi fondamentali della spettacolarità sono già alterati e dove la partecipazione sensoriale è accentuata, come potrebbe essere un percorso in un parco a tema in stile Disneyland. Il cinema con i suoi grandi schermi possiede una chance residua per offrire un tipo di esperienza visiva e sonora che è già mutata, a patto di trovarsi in spazi filmici più estremi rispetto al passato. È sicuramente questo il difficile tentativo di David Lynch.

 

L’Udienza è Aperta di Vincenzo Marra è il reperimento spietato di brandelli di vita in corso di svolgimento. Il pedinamento dei giudici ed avvocati coinvolti in processi di camorra ci mostra realtà ben lontane dall’immagine di una giustizia austera, super partes. Perché immediatamente prevale il ritratto umano dei vari personaggi e soprattutto il loro modo di pensare legato non ad alti ideali di giustizia che potremmo leggere più che altro in testi di filosofia, ma la ragion pratica del lavoro in corso, delle opportunità e delle varietà assurde delle leggi, che finiscono per astrarci completamente dalla realtà di tutti i gioni. Marra registra un mondo del lavoro con i suoi piccoli grandi segreti che si palesano come normalità per i protagonisti, ma che per occhi esterni sono oggetti surreali e indeterminati. Già i ragionamenti degli avvocati sono viziati da centinaia di normative, da anni di esperienza attraverso i quali si conoscono le pieghe più enigmatiche, nascoste, della burocrazia giurisdizionale. Sembra quasi di muoversi nei corridoi labirintici di un paesaggio kafkiano, e ciononostante il paesaggio umano risulta nettissimo, perché completo di tutte le sfumature dei personaggi, e perfino la loro ostentazione beffarda di momenti quotidiani, come il colorito spuntino con i salamini calabresi non ci fa più distinguere un ambiente di lavoro dall’altro. Che ci si trovi in una sala operatoria di un ospedale o nell’aula di un tribunale, le formalità sono davvero fittizie.

Vincenzo Marra è uno di quei cineasti preziosi che hanno appreso la lezione di Rossellini, De Sica Zavattini. Diretto e capace di cogliere quello che neanche la più fantastica fiction immaginerebbe. L’Udienza è Aperta è un film educativo (nel senso vero del termine). Da proiettare nelle scuole per vedere la reazione di docenti e alunni…

Sur la trace d’Igor Rizzi - Noël Mitrani

Sur la trace d’Igor Rizzi di Noël Mitrani articola una visione scissa dalla sceneggiatura, e per fortuna vi riesce suggerendoci come ispirazione principale certamente Jacques Tati, le sue squilibranti presenze corporee, gli spaesamenti uditivi e spaziali, e in misura minore i Coen e Kaurismaki. Non sono tanto i personaggi di questi ultimi tra il grottesco e la pigrizia a prevalere quanto la balordaggine e la banalità di ogni evento (visivo), che può essere immaginato (al cinema) in maniera diversa (per sua totale assenza). L’incontro con il mandante dell’omicidio o la preparazione all’uccisione sono semplicemente dei bluff. Un killer che non ha mai sparato, ma va bene lo stesso, è qualcosa di surreale, ma anche di molto probabile.

Mitrani filma alcuni spazi molto liberi e vuoti, all’interno dei quali si aggirano pochi personaggi. Ma il loro aggirarsi appare sempre anonimo, non è mai raccontato con enfasi, semmai limitato ad un’osservazione da lontano, ad immagini dove è possibile cogliere a distanza soltanto alcuni elementi importanti o forse del tutto trascurabili. Sur la trace d’Igor Rizzi è un film che può stancare se percepito sulla falsariga della traccia mnestica del protagonista, fil rouge che richiama più volte fino all’epilogo il volto perduto della donna di Thomas. Una falsa traccia narrativa che non può esser presa seriamente più di tanto. Più piacevole è l’erranza desolata attraverso i paesaggi innevati, gli interni bui e disadorni, la non riconoscibilità dei personaggi, che non possiedono triti stereotipi. Occupano lo schermo con i loro corpi ingombranti vivi o morti, seducono attraverso i pochi tratti che mostrano: lucidità o follia, sentimenti, percezioni che si confondono per tutto il film. In una visione davvero eccentrica, in un sogno ad occhi aperti.

El Cobrador/In God We Trust - Paul
Leduc

El Cobrador In God We Trust di Paul Leduc è ispirato ad alcuni racconti di Rubem Fonseca sulla figura del "Cobrador" (il riscossore), alle foto di Sebastiao Salgado sulla miniera di Serra Pelada, tra il Rio delle Amazzoni e il Rio Vermelho e ai versi della canzone "Curiosidade" di Tom Ze che accompagna la scene finali. Prevale certamente il senso di rabbia, che agita una riscossa rappresentativa che sfocia nel più cupo nichilismo, laddove occorrerebbero per la denuncia lucidità, serenità di sguardo, invece Paul Leduc si sofferma sull’aspetto truculento della status quo planetario. Per questo collega, a prima vista senza motivo, alcune città: Rio De Janeiro, New York, Miami, Buenos Aires, Città del Messico che servono a disegnare opportunamente lo scenario mondiale delle disuguaglianze, perché tutto è connesso e l’ingiustizia corrisponde al cinismo, alla povertà spirituale, all’arroganza capitalistica, alla cecità di una parte del pianeta che non vede la sofferenza dell’altra parte, all’effetto perverso di una crescita diseguale, di un fantomatico progresso senza reale sviluppo delle popolazioni. Fatte queste ovvie premesse, cosa rimane del film di Leduc? Quale sensazione può produrre nello spettatore? Una diffidenza verso questi personaggi che sono ritratti in modo del tutto superficiali. Le loro azioni, i delitti efferati descrivono un mondo senza compassione, laddove i movimenti rivoluzionari hanno ormai scelto i mezzi violenti per raggiungere qualsiasi obiettivo. Leduc figura un mondo senza speranza, dove l’amplesso tra razze diverse costituisce un simbolo soltanto tiepido di unità e ribellione.

Egytleneim - Gyula Nemes

Egytleneim di Gyula Nemes è solo lo spauracchio di un film possibile, che non si arrende, forse per presunzione, all’oscenità/verità “eterodiretta” della mdp. Potrebbe essere un film muto senza gli ammiccamenti adolescenziali del caso, per non essere, di nuovo, romanzetto di formazione, iniziazione sessuale, immaginazione puberale. E invece Gyula Nemes vuole proprio condurci dentro quella deriva così falsamente drammatica, perché in fondo lo è solo per quell’età, e la visione appare così sconvolta, parossistica, eppure mossa dal nulla, da sentimenti piccolissimi di fronte allo sguardo sperduto di un bambino immaturo, o alla rabbia di amanti furibondi (alla Leo Carax). Cosa dice Gyula Nemes, di cosa vuole informarci? Dell’ennesimo diario autobiografico di un ragazzino che deve scoprire il sesso o arretra di fronte al mistero dell’universo femminile? Perché Egytleneim rischia di apparire come quegli instant book tipo Melissa P., perché il montaggio che conta ben 4500 tagli non può issarsi a necessità stilistica e nemmeno quel piano sequenza che farebbe di Nemes, almeno come suggerisce Adriano De Grandis nel catalogo della Settimana della Critica, un erede di Jancsó e Truffaut.

Quei loro incontri - Jean-Marie Straub e Danièle Huillet

Quei loro incontri di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet è la prova di un cinema che non ha altro bisogno che di esser visto in profondità. D’immagini che si consolidano per la dissipazione assoluta dello sguardo. Sguardo che si consuma dentro il set di Straub e Huillet, sguardo che possiede innanzitutto il tempo per consumarsi dentro l’inquadratura, per attraversarla da una parte all’altra in tutte le direzioni, o meglio nelle direzioni che preferisce. Per questo se apparentemente il cinema di Straub e Huillet costringe lo spettatore a lasciare da parte usi e abusi dell’immagine narrazione, lo libera automaticamente, lo rende autonomo, responsabile di un’immagine da farsi in continuazione e in maniera radente al testo. I dialoghi di Leucò di Cesare Pavese sono il lasciapassare di una suggestione più vasta, più eterna, dell’incontro tra gli uomini e il senso di Dio. Invitano alla percezione di posizioni umane collocate nel tempo. Cosicché sono le pietre a parlarci, la solidità magnifica del tempo, e il verde intenso della vegetazione che ha un’altra posizione nel tempo e nello spazio. E le creature che parlano di un tempo perduto, di un rapporto diverso tra uomini e dei. In questa relazione mitica, segreta, risiede l’universo umano. Il contatto con la terra, tutti gli elementi della natura che si può toccare, odorare ed il cielo al quale ci si rivolge per pensare qualche volta a Dio. Pensare al di fuori di noi, attraverso questi particolari e surreali incontri, con i corpi che parlano e rimangono segni di terra. Come se in fondo non si potesse che pensare minimamente ad altro da sé. Il mondo è tutto lì, in quella dura immagine che si perpetua con stacchi netti (e coincide con le variazioni del tempo), ed è un bearsi senza fine, un credere solo nel mondo con tutte le sue storie possibili.

Andrea Caramanna