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Diario 2 - 5 settembre

Le prime fatiche del festival si avvertono, come di consueto, nell’affollato week end. L’organizzazione è sottoposta al massimo dello sforzo. Le file all’ingresso delle sale sono più lunghe. Invece, sorpresa, tutto fila liscio, ritardi quasi inesistenti e dovuti in alcuni casi ad imprevisti come lo scambio delle copie, quella sottotitolata in inglese piuttosto che quella italiana, del film di Zanussi, Persona non grata. Mancano comunque molti servizi ed il progetto del nuovo palazzo del cinema sbandierato ovunque e visitabile in uno spazio apposito, dovrebbe essere una boccata d’ossigeno per la Mostra.

Nella sezione concorso Terry Gilliam presenta The Brothers Grimm, suggestione favolistica dove non mancano accenti gotici e macchinari medievali. C’è anche una torre che custodisce l’incantesimo: la regina, Monica Bellucci, aspetta la linfa vitale di dodici giovinette, per rigenerarsi e tornare in vita. Nel frattempo continua a specchiarsi, o meglio lo specchio mantiene l’immagine perfetta e bellissima della strega decrepita, la quale giace a letto, ma è potentissima. Può distruggere ogni nemico che si introduca nel bosco, dove tutte le creature, animali e vegetali sono sotto il suo controllo. Quando i due fratelli riescono a rompere l’incantesimo, la torre crolla, lo specchio va in mille pezzi, l’immagine perfetta è perduta. Anche i francesi, presi continuamente in giro dalla storia, ed invasori del popolo tedesco, sono sconfitti. Tra tante numerose metafore della contemporaneità il film di Gilliam procede senza veri e propri sussulti dello sguardo. Sa più di un compito ben fatto, piuttosto che di avventurose visioni, nei territori delle favole ormai strarappresentati da decine di film con le stesse tecniche di animazione digitale, come il lupo o gli insetti e così via.

Un altro grande cineasta, Werner Herzog, si cimenta con la finzione fantascientifica. Almeno questa è la premessa del film The wild blue yonder (Il selvaggio profondo blu). Subito smentita dalle immagini. Un alieno molto "casalingo", sembra un barbone un po’ ripulito di qualsiasi metropoli, rivela la vera storia di una missione spaziale terrestre, che altro non è che la passeggiata in orbita della navicella Shuttle della NASA. Con immagini di repertorio, la mdp fittizia riprende gli interni della nave spaziale, dove gli astronauti svolgono compiti quotidiani come lavarsi, mangiare o andare a dormire, ma sempre sospesi, volteggianti come angeli, per l’assenza di gravità, e un commento che opera lo straniamento definitivo dalle immagini. Finché si arriva sul presunto pianeta alieno, invaso dai terrestri che vogliono colonizzarlo. Ma qual è lo scopo della missione terrestre? Trovare nuovi spazi per la costruzione di stazioni con tanti centri commerciali. Il centro commerciale è, infatti, l’unico luogo dove l’uomo può condurre un’esistenza felice. Nel centro commerciale c’è tutto, shopping, palestre, cinema ecc. L’alieno si chiede perché questi terrestri siano riusciti a costruire tante belle cose come la Casa Bianca, il Pentagono, mentre lui ha fallito, è un fallito perché non è riuscito a costruire un bel niente. Inoltre l’alieno si chiede quali saranno i nuovi clienti dei centri commerciali presenti nelle colonie. In questa avventura paradossale il cinema di Herzog prescinde da ogni esigenza narrativa, perfino dalle immagini, false per principio, perché possono essere usate per raccontare qualsiasi avventura del pensiero umano. Dalle più belle alle più terrificanti. Con immagini qualunque Herzog fa il suo film, cedendo solo nel finale alla retorica del bel pianeta selvaggio che gli uomini stanno distruggendo. Per fortuna nella sua visione utopica, gli uomini spariranno, la terra tornerà alla originaria bellezza.

Dalla sezione Settimana della Critica, opere abbastanza lontane dall’immaginazione cinematografica corrente e questo è senz’altro una nota positiva. Pavee Lackeen di Perry Ogden, documentario fiction sulla vita dei Travellers in Irlanda. Non sono zingari, ma senza tetto che vagano in roulotte, fermandosi dove capita nella periferia di Dublino. I giovani crescono tra la sporcizia, arrabbattandosi per trovare tutti i mezzi di sopravvivenza, acqua, vestiti, mobili, corrente elettrica. Una madre Rose che tenta di mandare i figli a scuola, la giovane Winnie, che vaga per le strade semplicemente perché è l’unica vita che conosce. Il ritratto è molto sfocato, Ogden non crea immagini né tanto meno immaginari adatti a sottolineare il disagio sociale degli emarginati. La loro non appartenenza al sistema dipende semplicemente dalla loro povertà assoluta. Il che potrebbe indurre ad una riflessione più ampia, ma che il film non fa nulla per spingere. Semplicemente, la mdp usa il pedinamento come unico strumento retorico, ma senza preferire una situazione scenica a un’altra. L’imparzialità agghiacciante di Ogden raggela lo spettatore succube dell’entertainment. Cronaca totale, morale e senza giudizio o predicozzi.

L’altra opera interessante è l’iranianoYadast Bar Zamin di Ali Mohammad Ghasemi. Excursus sulla presenza di Dio, ossessione che prende le forme morbose dell’assassino protagonista. Angelo maledetto, vendicatore, che vaga tra i villaggi per uccidere bambini. Creature che rappresentano la benevolenza divina, il senso di esistenze che altrimenti si perderebbero nell’inferno della sterilità e della sfortuna. Con paesaggi deformati, cupi e terrificanti, illuminati da una fotografia pregna di toni grigi, e i primi piani grotteschi del protagonista assassino,Yadast Bar Zamin è un vortice visivo, un grido disperato di solitudine, dolore. Laddove le forze primordiali delle esistenze si traducono in visionarietà sempre più oscura, dove tutta la luce divina è catturata, assorbita dalla terra fangosa, la stessa melma che inghiotte nel finale l’invasato protagonista.

Un’altra opera nella medesima sezione è Brick, di Brian Johnson. Regista al suo esordio, sfrutta pochissimo le capacità del protagonista maschile, Joseph Gordon Levitt già ammirato in Mysterious Skin di Gregg Araki. Tanto che la rielaborazione hard boiled tra Bogart e Lynch, con tanto di una neo Laura Palmer, fa davvero sorridere. Tanta confusione nella sceneggiatura nel tentativo di scrivere una storia logorata dalle scatole cinesi. Ma il labirinto e la poca fisicità dei corpi attoriali, sempre fuori parte, non permettono a Johnson di raggiungere alcun obiettivo.

Gabrielle, di Patrice Chéreau, si avvale della presenza estrema di Isabelle Huppert. Corpo sempre disponibile ad ogni sventramento. La Huppert garantisce allo sguardo, anzi di più, a tutta la percezione dello spettatore, il raggiungimento di quel limite obliquo, traccia onnipresente delle nostre vite. Insomma l’indicibile che è semplicemente il vissuto che va dipanandosi, in ogni storia (im)possibile. Il rapido figurarsi su ogni minima espressione del corpo della Huppert dell’inevitabilità sensoriale. Non a caso il film inizia con la supervisione razionale, voice off, di Pascal Greggory, nella visione di marito e sposo, elementi buttati lì nel piatto della bilancia con estrema precisione, sicurezza, pronti a saltare in aria, a scombinarsi, per turbare, continuare a turbare, tanto che il protagonista maschile dichiara di non poter difendersi da una emozione mai provata. Il principio dell’incertezza, dopo la nascita, e la certezza angosciante di tutte le precarietà possibili e non immaginabili. Chereau accompagna i suoi interpreti in questo dolce e terribile viaggio di vita, con primi piani sensibili e naturali che si traducono in visione autentica, mai artificiale, lungo il percorso già tracciato, almeno per la parte maschile, dal racconto di Joseph Conrad, Le retour, a cui il film si ispira. Il cinema di Chereau da Intimacy a Son frère è sempre più ricco per quella piacevole accumulazione lucida di pensieri brucianti, stati crudeli, emozioni insopportabili che sono immediatamente dirompenti e coincidono con l’immagine mentale-corporea dei personaggi, che è anche il pensiero umano di una società, di ricchi, del primo novecento in Francia. Laddove ogni caratteristica della scenografia, l’eleganza tombale, le musiche tronfie di Fabio Vacchi, conducono direttamente ad una espressione formale nitida dell’anima, senza estetismi vacui, quando i tempi cinematografici sono spezzati, oltrepassati da false didascalie, dalla dimensione fluttuante del colore, che dal bianco e nero "razionale" precipita nel colore molto più doloroso e irrazionale.

Bubble - Steven Soderbergh

Bubble di Steven Soderbergh è lo spietato resoconto di eventi marginali. Nella provincia statunitense dell’Ohio alcuni personaggi ostentano una quotidianità insopportabile che è fatta di silenzi, solitudini infinite. Con un cast di attori non professionisti, per di più abitanti degli stessi luoghi in cui si svolge la vicenda, Soderbergh realizza una sorta di documentario psicologico, rubando espressioni, raccogliendo indizi, per una immagine più concreta dell’anima, come già aveva fatto in Sex, lies and videotape, e il risultato è l’ineffabilità sostanziale dell’emozione, in grado sempre di tradirsi, di rivoltarsi al di là delle regole e convenzioni sociali, e prima di rifugiarsi negli angoli più bui dell’apparenza. In questo senso il primissimo piano del volto di Martha/Bubble è un ritorno visionario di caligariana memoria. Una follia che si stempera tra le visioni più comuni, nello spazio di una stanza, della fabbrica, di un fast food qualunque.

Andrea Caramanna