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Diario 6 - 7 - 8 settembre

Dopo essermi temprato per bene dalle fatiche dei primi giorni, oggi (8 settembre) posso vantare 3 ore di sonno, dopo la mega proiezione notturna a seguire con Enduring Love (sezione Mezzanotte) e Donnie Darko The Director’s cut (sezione Mezzanotte) rispettivamente di Roger Michell e Richard Kelly. Uscita dalle due proiezioni: ore 4,00 del mattino! I neuroni funzionano in modo particolare e le allucinazioni insidiano le connessioni logiche. Manco a farlo apposta, i film citati hanno in comune la dimensione onirica. Va bene che qualcuno ha dormito veramente, tuttavia il mistero della mongolfiera nel film di Michell è una metafora dello statuto percettivo. Tutto ciò che sembra essere in un modo alla fine scopriamo essere completamente diverso. Luogo perturbante è la sequenza iniziale, il dipanarsi dell’evento con le sue riottose, inspiegabili, piccole casualità collaterali. Una disgrazia può essere una piccola grande rivelazione dell’essere, la manifestazione del pensiero di Dio. L’interpretazione di un evento è un processo ambiguo perché segnato da altri mille dettagli, perché ogni personaggio ha una densità infinita irriducibile a una sola prospettiva. Michell naviga benissimo questa babele di segnali, penetrando le ossessioni dei personaggi, il cammino instabile con un epilogo fiammeggiante per la nuda crudeltà del Caso, ma anche per la comunissima parabola sentimentale che segue le tipologie dell’amor fou. Il volo della mongolfiera ha una seduzione non riconducibile alla narrazione, che rispetto al precedente The mother, solo a tratti si affida a determinazioni stabili. Come se Michell scrutasse meno i personaggi, per esalarne la dimensione nera suggerita dal romanzo di McEwan (al quale il film si ispira).

Donnie Darko è un classico della fantascienza dei viaggi nel tempo, o meglio tenta di introdursi direttamente nella paradossalità dei fenomeni fisici dello spazio tempo. Le curve dell’universo che nascondono porte di accesso in altre dimensioni temporali dello stesso spazio. La vita di Donnie Darko figura la sostanziale labilità delle separazioni tra passati e futuri eppure, molto ironicamente, le conseguenze nelle vite dei personaggi sono assolutamente divergenti. Il film si chiede quale identità abbia la presenza che spinge gli uomini verso un’azione piuttosto che verso un’altra, considerando l’influenza di esseri alieni. La messa in scena di Richard Kelly è totalmente penetrata da queste "voci altre", da sensazioni di deja vu che sono poi il climax del finale. Kelly riesce anche a tracciare le coordinate di un racconto minore il cui spazio ideale è la scuola dove si oppongono mentalità, conformismi e spiriti rivoluzionari, ma soprattutto è la libertà dell’individuo a doversi sottrare spesso da un orribile condizionamento e dalla perfidia di personaggi capaci di mimetizzarsi. Proprio l’essere altro è il dato più importante della visione del film, la continua metamorfosi del bene e del male, di una Storia che non è mai definitivamente scritta.

La femme de Gilles (sezione Orizzonti) di Frédéric Fonteyne è un percorso corrispondente al precedente Une liasion pornographique laddove esplora gli spazi per frugarne elementi tangibili di liaisions segrete poco segrete che infine esplodono, prolungandosi verso la tragedia. La prospettiva di Elisa è sempre soffocata dal ruolo femminile dell’epoca storica, dai compiti soffocanti di madre e moglie completamente assoggettata a una presenza maschile solo schiacciante. Le visioni dei rapporti sessuali figurano un incubo taciuto, l’impossibilità di un ruolo, una posizione (del corpo alternativa) diversa dalla sottomissione completa. Attraverso questa desolante parabola Fonteyne mette in scena lo sguardo remissivo di Elisa, turbato da un complimento alla sorella da parte di un passante ("pollastrella"), e sciolto in una risata nevrotica. La femmme de Gilles infine è sommerso da una dimensione totalmente paranoica, che indica il suicidio come unica via d’uscita per risolvere la disarmonia sconfortante della famiglia. Fonteyne costruisce tale dimensione di follia per gradi moltiplicando i segni sui volti e accendendo espressioni sempre più gravi nei primi piani terrificanti.

Todd Solondz con Palindromes (Todd Solondz) utilizza il gioco di parole del titolo per sovvertire il senso delle fiabe moderne. Cita in qualche modo il Laughton di La morte corre sul fiume quando narra di adolescenti in fuga dalle malìe degli adulti. E cita anche i Freaks di Browning nel modo più impuro ed efficace possibile, con una casa che ospita malati e deformi. Proprio la deformità è il tratto visivo più eclatante, perfino la metamorfosi dei vari corpi adolescenti che infine potrebbero essere solo uno. Altro elemento flagrante è la perversione dell’adulto pronta ad emergere in qualunque spazio scenico, a figurarsi come trait d’union dei vari "finti" episodi, ancorché le didascalie vorrebbero creare un "falso ordine" tra i vari tempi narrativi. La storia di Solondz è sempre una storia dolorosissima, tra feti abortiti e gettati in anonime discariche di periferia. Il cinema di Solondz ha questa naturale spietatezza, come se ogni morale potesse sempre vanificarsi di fronte a un "bel" discorso (come quello dei genitori ai figli o come le varie parabole cattoliche) che cela un dato di fatto: il vizio dell’abuso (di potere), l’utilizzo della forza bruta, il condizionamento, la compulsione.

Izo (sezione Orizzonti) di Takashi Miike ha il coraggio di minimazzare ogni assunto narrativo. Il cinema Takashi Miike è una totale parabola galoppante delle forze demoniache, gli inferi sono porte aperte nella visionarietà totale rimbalzante da un angolo all’altro del globo. Miike film una presenza alienata nel sangue perpetuo, raminga verso il nulla, l’annientamento del corpo che si mostra pesante, materia da trafiggere alla quale infliggere ogni tipo di mutilazioni di offese, come quella iconologica della Crocifissione del Cristo. Un corpo in continua soggezione, che figura il continuo sacrificio nel bagno di sangue. La collera appare quale dimensione pervasiva totalizzante, una fame che si rigenera senza posa, che automaticamente si diffonde come naturale e crudo processo, emanazione di un Destino Universale.

L’oeil de l’autre (sezione Giornate degli autori) di John Lvoff è un’opera sganciata completamente dallo spazio delle parole. Il fascino scaturisce dallo sguardo ammaliato nel processo di contemplazione del paesaggio che si rielabora nei modi di Blow up. L’occhio percorre lo spazio documentato dalla fotografia per rilevarne dissonanze o semplici differenze. L’occhio è risucchiato dalla scoperta di nuovi porzioni perturbanti nel quadro, come quello che si ricompone davanti alla protagonista, con le stesse geometrie di un anno prima, causando disagio nella percezione. Trovare il movimento nell’immagine fissa corrisponde a costruire nuove storie, attraverso ipotesi suggestive. L’occhio dell’altro diventa automaticamente il nostro nella sovrapposizione del punto di ripresa, ma si frantuma, si discosta per rielaborazione di una percezione infine sempre altra, in un labirinto infinito. L’occhio dell’altro è anche metaforicamente (non solo un omaggio) quello del regista Iosseliani, personaggio mai in scena eppure chiamato in modo flagrante come corpo che guarda, interpreta un segno. L’impressione chimica della pellicola resta così un mistero assoluto, nonostante la complessità delle figure possa essere minimamente palese, per poi sottrarsi al significato in modo imperscrutabile.

Le grand voyage (sezione Settimana della Critica) di Ismael Ferroukhi è una semplice scoperta del rapporto padre figlio, contrapposizione tra la generazione ancora legata alle origini arabe e alla fede musulmana e quella nata nel paese d’emigrazione, la Francia in questo caso, che ha perso ogni rapporto con il senso di una tradizione. L’abitudine alla preghiera del padre è più volte rappresentata come luogo dell’astrazione dal mondo terreno, pratica che può e deve esser compiuta, superando i disagi del viaggio. Nella regia piatta riesce comunque a figurarsi luminoso l’immaginario del pellegrinaggio alla Mecca, con folle oceaniche, preparativi alla liturgia e visione dei morti.

Vento di terra (sezione Orizzonti) è uno dei pochi film italiani a meritare la ribalta veneziana. Vincenzo Marra non è solo capace di dirigere attori che hanno la faccia giusta (senza le frequenti caricature divistiche), ma di guardare pornograficamente alla storia italiana recente, facendo splendere la verità. Rispetto ai padri del realismo italiano, Marra figura un neoneorealismo tendente sempre verso il drammatico, come se i toni da commedia potessero risultare irriverenti per il soggetto. La visione infatti è ostinatamente cruda, le panoramiche vedono solo le città dall’alto e quel brulicare di gente, impegnata quotidianamente alla conquista della sopravvivenza, mentre la Storia gira coi suoi perversi meccanismi che stritolano le solite vittime. Nell’esercito non sentiamo una sola parola di dialetto del Nord Italia ed il burbero addestratore si chiama Caputo. Il lavoro è sempre una questione di ricatto oppure di abuso. Questi grandi personaggi sono le vittime sacrificali della Violenza perpetua di un sistema che ha regolato alla perfezione le sue istituzioni per servirsi di persone come corpi, ingranaggi utili a far persistere interessi non conoscibili. Non c’è spiegazione, né dietrologia politica, ma solo considerazione del male, del disagio e dell’angoscia di questi poveri esseri umani.

Su Vera Drake (sezione Concorso) di Mike Leigh non c’è molto da dire. Ineccepibile la trasparenza narrativa e la capacità dei personaggi di mostrarsi disponibili alle richieste di un regista che si affida molto alla parola, non trascurando i vari livelli espressivi dei personaggi, sempre garantiti dai frequenti primi piani. Il maggiore difetto del cinema di Leigh è quello di non abbandonarsi mai alle pieghe delle sguardo, con personaggi che infine sono i burattini automatici di una sceneggiatura (e anche un decor) di ferro.

Stesso discorso può essere fatto a proposito di Le chiavi di casa (sezione Concorso) di Gianni Amelio, regista che ama fin troppo i tempi del cinema classico. Un cinema dal quale dovrebbe scaturire automaticamente concretezza proprio per la forza e l’armonia degli elementi disposti in ordine dal demiurgo regista (nonché ispirazione del libro di Pontiggia). Il cinema di Amelio è sempre in equilibrio, misurato nella tragedia e nel sorriso della commedia. Ma è un cinema che oggi non può bastare, nonostante l’apparente rigore scenografico sottomesso al regime di una sceneggiatura ineccepibile.

Andrea Caramanna