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reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
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Mostra del Cinema di Venezia 2001
la fredda cronaca...

10/09/2001

Torno da Venezia attorcigliata e sorpresa da emozioni che non vivevo da tempo, forse rimosse volontariamente perché troppo stonavano coi nuovi giorni quotidiani. Vivevo di cinema, non è un'esagerazione dirlo, ma un'improvvisa necessità mi ha "costretta" in un ufficio. Ora, niente vittimismo, ci mancherebbe ma mi sa che voi sarete i primi a pagare questa mia voglia di esprimere i miei piaceri e gusti.
A Venezia mi sono sentita "uno straniero interno", vale a dire,  riconoscevo i linguaggi. le situazioni ma ero piu' in grado di prenderne le giuste distanze, guardarle dal di fuori e vivere la mia esperienza. Come faccio, mi sono detta, a tornare a casa, se davvero entro in una sala, sarebbe come un intensissimo goccio di vino dopo...no, no, vi risparmio la metafora dell'alcolizzato. Vedo una ragazza  piu' giovane, espertissima, suoi occhi svelti e osservanti e le sue mani già in diritto di scrivere qualcosa sul suo magnifico block notes. Non invidio le giovani critiche, ma ATTRICE vorrei essere, se trovassi il coraggio di sognare ancora per soprattutto FARE. Dunque Venezia, preso il traghetto, arrivata al Lido, circondata da pass e da belle ragazzine troppo ritte sulla schiena con paparazzi attorno. Domande ad una critica francese con immancabile casa in Toscana, appassionata di cinema italiano, e poi quella ragazza, con pass al collo, così rassomigliante a me, così dentro a tutto, così tranquilla. Non vuol dir nulla, lo so, avere un pass al collo, ma sono stata così piccola e mediocre nei miei pensieri da invidiarla. Sono ripartita senza vedere un film, senza vedere una passerella, sono tornata a casa.
E pentita ieri sera, a Carpi, la piccola città dove vivo, sono entrata nel primo cinema incontrato e ho visto un pessimo film, Luce dei miei occhi, appunto.
Adesso senza fare la  donna dei surgelati, la mia vita non è solo ufficio ma sa essere di piu', ma voglio tornare ad avere fame di cinema e spero che la lista mi "aiuti", non come farebbe una FGC o un gruppo di comunione e liberazione ma con le sue notizie a tenermi aggiornata in modo che io possa partire decisa e per tempo verso questo tipo di manifestazioni,  da quelle meno ridondanti a Venezia appunto. Il mio scritto potrebbe irritare qualcuno ma se c'è chi vorrà darmi il benvenuto ne sarei felice. 
Bene, tornando al film, sono d'accordissimo con chi scrive il messaggio al quale mi lego. La recitazione a denti stretti (parlerà proprio così!) della Ciccarelli,  risparmiata e nevrotica, mi ha infastidito (ottimo l'esempio della Buy), il film mi ha annoiato con questa sua insistenza nel volerti servire una normalità in vetrina o sottozero. E poi basta con questa voce narrante e la storia di Morgan: e' come il paragone con quella figura di cui parla Lo Cascio, il viaggiatore, troppo insistito, troppo spiegato! Insomma, mi è venuto il mal di schiena e se a me viene il mal di schiena al cinema, vuol proprio dire che sento piu' la sedia sotto il sedere che il film davanti a me. 
Bene, mi sa che ho riiniziato proponendomi goffamente con il dentino avvelenato che fa piu' "critico". Devo riprendere a scrivere che ovviamente è un allenamento e cercare le mie parole per i miei giudizi. Magari iniziare con me stessa o con amici. Scusate, vi ho preso come sfogo da diario..ma quelle luci, ieri...

Irene

07/09/2001

oggi niente grandi film ma lunghi dibattiti, tutto il giorno di settima conferenza euromediterranea sul cinema, comunicazione audiovisiva e interattività per il dialogo tra le culture, le solite dichiarazioni di intenti di aiuti e valorizzazioni di culture culminano nell'intervento di sgarbi che come tutti ben sanno non assume posizioni di responsabilità e con lui il governo, insomma la sua idea è una fiera del libro ma fatta di film in città mediterranee, a partire da tangeri, per vendere meglio
ridatemi techiné
in contemporanea l'arzillo rohmer digitale
stasera alle 1930 nel fuori del fuori documenti dalla sindrome del golfo al g8, dibattiti fino a notti fonde,indimedia aggironamento, radio sherwood, makaja e freccero-giusti-torrelli, se non prendo l'ultimo vaporetto vi racconto poi.

per il cinema morto quei leoni li darei al carpenter e ai suoi barbari metal, al chahine e al melodrammone all'austria di carver sotto il solleone.

Clà

06/09/2001 - A.I. di S. Spielberg

.. e, sospeso, tra qs due momenti arrivò finalmente l'ebreo errante, nel senso che di errori ne ha fatti molti e evidentemente gli piace, poiché persiste..
Sto parlando di Spielberg, che finalmente ha fatto la sua comparsa al lido. Oddio comparsa..: s'è visto in un corto di 7 min. di presentazione ad A.I. in cui spiega il motivo per cui non è a Venezia... come se qualcuno glielo avesse chiesto! Inoltre, dopo aver parlato della grande stima che Kubrick aveva per lui, afferma che, "con molta umiltà", ci mostrerà questo ultimo film.

Film che lui non sente suo, ma non solo, non lo capisce nemmeno un po', non sa da che parte prenderlo, e come farlo giocare, esattamente come la madre di David, il "mecca" protagonista del film.
Forse è proprio così. Quest'opera chiede amore, come il bambino/cyborg chiede una madre, una creazione compiuta, ma non la trova e sarà destinato ad essere solo, (di quella solitudine che regola
l'inespressione, l'impossibilità a comunicarsi).
Orfano del genio e adottato da altri, il film vagherà nel limbo delle opere mancate, oppure sarà ibernato per duemila anni.
Come David (chi l'avrà scelto questo nome? è geniale comunque, un bambino dai tratti molto ariani con un nome così..), il film è dotato di memoria: sembra ricordarsi infatti del padre/madre Stanley e di alcuni suoi tratti (gli interni della casa/gabbia/culla, il ruolo dell'istituzione, ecc) e anche di specifiche parole, frasi cinematografiche (una steady a seguire il piccolo bambino biondo, molto simile a quell'altra scena di quell'altro film sulla meccanica applicata a vegetali - guarda caso..)
Brani di memoria, ma che da soli non bastano a fare un essere umano finito.
Il film si perde e punta al miele, alla vicenda di un bambino perduto. Mi sembra presto per un'analisi finita, ma questo credo sia il dato principale dopo la visione notturna al Lido. Pronto a essere smentito.
E' bello pensare allora a un vero capolavoro del Maestro: Sapendo di non poterlo portare a termine, Kubrick affida la regia di un film sul divenire (che lui già prende a prestito da una novella che arriva da Collodi) a un regista che - lui lo sa - non potrà mai farlo diventare un'opera (troppo distanti i due registi, troppo diversi gli stili, ma non solo, il respiro, la formazione "personale" verrebbe da dire).
Così "nasce" un film che si riproduce come testo in profondità ontologica: ciò che non è non sarà mai e non potrà essere a più livelli, dal livello del testo al livello della sua genesi. La cosa interessante è che l'iterazione di tale sospensione dall'essere genera a suo modo una tradizione a-culturale, ma pur sempre tradizione: Ciò che non c'è non ci sarà mai all'infinito ciclico. Una madre clonata non sarà mai come una vera madre, così come un testo (filmico)non può essere clonato. Cosciente o no (poco importa a questo punto) Kubrick utilizza, ma forse viene utilizzato dal "suo" testo per promuovere un'affermazione - finta - che risponde all'ordine dell'"io non ci sono" e in quanto tale non riesce a dirsi.
Ma allora, se così è, cioè se ciò che non è inizia a pensarsi, meglio, ordinarsi/computarsi come tale, come non-essere e quindi a trovare una sua id., magari tramite password (un insieme di pass-words, quindi un testo!), la rivoluzione è iniziata davvero e l'umanità deve iniziare a stare all'erta contro i "mecca".

Pamela

05/09/2001 - Hurlements en faveur de Sade di Guy Debord

in breve il soggetto.... quale? Un soggetto nel senso sintattico del termine, cioè colui che fa l'azione, questo è il soggetto. Se l'azione è "parlare" allora il soggetto è "chi parla". "Hurlements" consiste (e, insieme, "non" consiste, è inconsistente, è un film che non c'è, si nega sempre fino alla fine e poi non finisce negando così l'inizio fattuale) in un alternarsi di schermi bianchi e neri di diversa durata. Sul bianco 4 voci f.c. che si alternano recitando articoli della costituzione francese e del codice civile, dichiarazioni d'amore, notizie sulla polizia francese (e veniamo così a sapere che le forze dell'ordine parigine sono dotate di 30.000 manganelli!!!) e cronache sulle azioni lettriste, fino al lungo nero finale di 24 minuti che chiude il film-pellicola. Forse il finale "è completamente rovesciato per un errore nel laboratorio di sviluppo", come ha detto Ghezzi durante la presentazione, ma questo non fa che completare la negazione estendendola addirittura alla fase postproduttiva, e quindi più "materica" del fatto cinema.
Il bianco coincide con l'azione, la parola chiama il bianco che quindi viene "azionato". Il nero nega non solo la verbalità, ma addirittura la sua possibilità di chiamarsi, di autoesprimersi. Nero/niente vs bianco/tutto, massima possibilità vs minima cosalità.
"le arti future saranno sconvolgimenti di situazioni, o niente" recita una delle voci. O niente. O lo sconvolgimento o niente, E' una prova d'amore, "la" prova d'amore. O tutto, tutto sconvolto, dato e negato sempre, o niente, niente di nulla, nulla.
Non sembra nemmeno una scelta: "Niente" si può scegliere, può sceglier-Si, ma "Tutto" è dato.
L'autoespressione del Niente nega l'affermazione del Tutto, scioglendo la scelta e la sua rappresentazione/cinema. Cos'è infatti il cinema se non la rappresentazione continua diuna scelta? Ma è una scelta che finisce contro un Nulla/nero naturale che invece ingloba Tutto artificiale (e non a caso verbalizzato) e per questo non-finito.

Pamela

04/09/2001 - The Navigators di Ken Loach e L'emploi du temps di Laurent Cantet

Ok da venezia: sono qui da ieri e ho visto già alcune cose degne di nota.
Viene spontaneo accostare i due grandi film sul lavoro che sono passati qui tra ieri e oggi: The Navigators di Loach e L'emploi du temps di Cantet

Sono due sguardi diversi e forti, anche se forse Cantet spicca di più per una decisa analisi psichica della perdita del lavoro in epoca di new economy. (questo tra l'altro è un dato impressionante: in molte opere è presente - come semplice citazione o come ragione portante della storia - un accenno alle nuove strategie produttive e politiche.
Lo sguardo: opinione condivisa da altri all'uscita de The Navigators è che nessuno in Italia, ma forse al mondo, è in grado di offrire un'immagine più netta, distinta e lucida (che non vuol dire patinata) del lavoro dei cineasti inglesi, Loach in particolare. Come si guarda il lavoro, il lavoro "vero", che si fa con le mani, quello con cui ci si sporca? Ai colletti bianchi, durante i corsi di formazione, insegnano a non infilarsi mai le mani in tasca quando scendono in un'officina, segno di rispetto nei confronti di chi le mani le usa e a volte le rischia pure...
Lo sguardo di Loach sul lavoro fisico è uno sguardo pieno di rispetto vero, è uno sguardo che non si infila le mani in tasca, ma nemmeno aiuta l'operaio.
E' una soggettiva della fatica che è oggettiva per tutti e per questo non solleva, semmai appesantisce.

Diverso Cantet: il suo sguardo, rivolto proprio ai colletti bianchi, riposa "prima" del lavoro. Cantet filma la sospensione da esso, il viaggio di una mente in pausa dal lavoro. Vincent non lavora, perché a 40 anni è stato licenziato e allora inizia a vagare fingendo di lavorare e riproducendo verso l'esterno gli aspetti formali del lavoro: non l'ha detto alla famiglia e quindi si ritrova a fingere le riunioni, le pause caffè, le offerte... Vincent va a occupare gli spazi mimetizzandosi nei bar, nei parcheggi e nelle sale d'aspetto degli uffici. Spazi riconoscibili perché anonimi, in cui è possibile atteggiarsi ad "aventi diritto" a un luogo, un posto, salvo poi essere smascherati dagli "addetti alla sicurezza".
Poi però si va oltre. Cantet passa attraverso i rapporti familiari con una capacità analitica che liquida ogni fantasma morettiano presente al Lido. Il profilo dei rapporti nonno-padre-figlio non necessita della "purezza tragica" della morte per delinearsi. La crisi della perdita del sistema mette in luce la tragedia quotidiana delle aspettative, di ciò che devi fare per essere all'altezza. Vincent all'improvviso
non si trova più all'altezza e forse per questo cerca un rifugio in alto, nella neve delle Alpi svizzere, oasi in cui ritrova, per pochi istanti, un barlume di serenità.
Il finale, vera "genialata" della sceneggiatura. Vincent ritrova un lavoro, su raccomandazione del padre onnipresente - e qui sta un'altra sconfitta, sua e di un'intera classe schiacciata dall'opera dei padri e dal sistema, spietato, della competizione - ad alto profilo, ben renumerato e di grande responsabilità.
Noi ci fermiamo al colloquio con un primo piano a stringere sul volto pronto ad rimodellarsi e a cancellare la calunnia, mentre fuori campo il responsabile dell'ufficio personale elenca le condizioni lavorative: lieto fine che ti prende a pugni, peggio che se il Nostro fosse andato fuori di testa e avesse fatto a pezzi la famiglia. Sarebbe infatti stata una pazzia riconoscibile e rassicurante dallo spettatore, che, invece, può tranquillamente identificarsi con reintegrazione nella sconfitta.

Pamela