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57ª Mostra Internazionale del Cinema
di Venezia

Recensioni

8 settembre

Si avvia alla conclusione la tanto attesa 57 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fra conferenze disattese, polemiche più o meno forti (fra tutte, quelle della stampa estera che invitano Barbera a non trasformare il festival di Venezia in una manifestazione che propone un cinema "piccolo" e non sempre spettacolare), recensioni visionarie di giornalisti ormai esasperati da tutto e da tutti che hanno stroncato qualsiasi cosa; ora che ci rimangono solo i cortometraggi, attendiamo fiduciosi i soliti scontati premi, che però quest’anno non appaiono proprio tali…nessuna voce di corridoio, nessun pronostico avanzato (i più arditi si limitano a citare quelli che sicuramente non vinceranno nulla, come i film cinesi che hanno già fatto man bassa nella scorsa edizione e a Cannes, o come le opere sulle quali è già caduto l’anatema ecclesiastico), sopravviviamo nell’attesa con la speranza che se proprio non potrà vincere il film più bello, e a Venezia spesso accade, non vinca un’opera scontata, priva di emozioni, ma che accontenti un po’ tutti. Questa edizione, a mio avviso, ha avuto un pregio degno di nota: ha avuto il coraggio di presentare film sui quali non è stato possibile esprimere un giudizio neutro; vuoi per i contenuti (molti di condanna o di contestazione), vuoi per l’aspetto formale sono state produzioni che hanno colpito profondamente il pubblico, che sempre è uscito o entusiasta o profondamente disgustato.

Allora, lasciamo le critiche a coloro che non possono farne a meno e veniamo agli ultimi tre film presentati in concorso.

La lingua del santo di Carlo Mazzacurati è stato il primo film italiano a ricevere un lungo applauso da parte del pubblico, conquistato dalla storia leggera, ma mai stupida, di una coppia di falliti, ladri solo per necessità (cosa che si desume anche dalle varie refurtive: un carrello pieno di cibo trafugato da un supermercato, una borsa colma di sigarette…un pezzo di carne e delle salsiccie che saranno la causa della lunga odissea che li trasformerà in rapitori d’eccezione) che si ritrovano a negoziare un riscatto per la reliquia (la lingua: da questo il nome del film) di Sant’Antonio da Padova. Splendida e vivace l’interpretazione di Bentivoglio e Albanese, il primo nei panni di un improbabile manager mancato, il secondo eterno bambino che non riesce a trovare il suo posto in una società consumistica, in cui se non hai soldi non sei nessuno. Se questo film risulta allegro e brillante, quello del regista hongkonghese Fruit Chan si situa in un genere a metà fra il dramma, la commedia e il documentario sociale. Liulian Piao Piao ("Durian Durian") è il nome di un frutto esotico che si può trasformare in arma contundente, in un dono prezioso per il compleanno di una bambina (le torte di compleanno sono ormai una cosa superata) o in un ricordo da spedire ad una persona lontana. Un film grazioso, che però si discosta dalle opere precedenti del regista e si avvicina di più per tematiche e stile alla corrente cinese di giovani talenti.

Nella sezione Cinema del Presente, quest’oggi si merita una lode il film di Paul Pawlikowki, The Last Resort, per la storia intensa e commovente, per la poesia delle immagini formali e per l’attenta caratterizzazione dei personaggi.

Cambiamenti dell’ultimo minuto: la proiezione dell ore 20, che doveva essere un tributo al regista Zivojin Pavlovic, è stata sostituita con un curioso, ironico e spassoso documentario sui cimiteri dei divi di Hollywood; novanta minuti di umorismo grottesco su tombe, tributi in onore di Rodolfo Valentino, pic nic in mezzo ai morti e biografie filmate dei cari estinti.

E per concludere, la nota più negativa di tutto il festival: O Fantasma del portoghese Joao Pedro Rodrigues ha reso vano ogni possibile commento positivo; fra sodomizzazioni e peni in ogni dove, il film non trova una sua ragione d’essere, manca una storia, manca la bellezza formale, il ritmo…e il tanto atteso protagonista rivestito di una tuta di lattice non trasmette alcun sentimento erotico, ma rassomiglia vagamente ad una brutta copia del famoso Diabolik, con le movenze da Uomo Ragno…mah!?

Sara Borsani

7 settembre

La kermesse veneziana sta volgendo al termine, almeno per i poveri giornalisti (grandi mostri del giornalismo esclusi…loro, infatti, arrivano freschi e riposati, non fanno code e si godono feste e amabili rinfreschi all’Excelsior) che con domani verranno sollevati dall’ingrato compito di giudicare, capire o quanto meno tenere gli occhi aperti dopo ore di proiezione incessante…anche se, onore a Barbera, questi due giorni hanno ridato speranza ai cinefili o ai semplici amanti del buon cinema (aimè, l’eccezione che conferma la regola è sempre presente e questa volta si incarna nel film di Roberta Torre, Sud Side Story, una rilettura di Shakespeare in chiave trash partenopeo, che riprova a ripetere il successo di Tano da morire con risultati alquanto deludenti, e questo per non essere troppo cattivi). E ce n’è davvero per tutti i gusti: per gli orientalisti che non possono fare a meno dell’ennesimo film cinese o iraniano, per gli irriducibili dell’action movie hongkonghese, per coloro che si emozionano con piccole storie quotidiane, per i nostalgici degli anni Trenta, per chi non è andato a Woodstock in nessuna delle tre occasioni ma avrebbe voluto tanto esserci, per chi ama i thriller psicologici e i tatuaggi…per coloro che aspettano la Mostra per assistere all’ennesima opera di Woody Allen (in questa occasione particolarmente riuscita, a quanto sembra…io aspetterò l’uscita nelle sale italiane); dopo aver mostrato, quindi, un attimo di cedimento nella parte centrale, la programmazione sembra arrivare al gran finale con opere che aspirano sicuramente se non a qualche premio, quantomeno ad un successo di pubblico (per le opere più "commerciali") e di critica (per tutte le altre), se aggiungiamo che finalmente si può camminare con tranquillità senza essere invasi da orde di fan scalmanate e chiacchierare amabilmente con i registi emergenti o con attori sconosciuti, allora otteniamo una degna conclusione per la 57 edizione della Mostra del cinema di Venezia.

Ma veniamo ai film: tra quelli in concorso, segnalo innanzitutto (e non poteva non essere così, visto che sono reduce da un anno in Cina) Platform di Jia Zhangke, un viaggio lungo dieci anni (1979-1989, un periodo fondamentale per i cambiamenti politici e sociali che anno liberato la Cina dall’influsso del Mao pensiero) che svela il percorso personale di un gruppo teatrale attraverso l’ottica macroscopica dei mutamenti epocali dell’intera società cinese, un film che senza dubbio può atterrire per la lunghezza, come molti giornalisti hanno sottolineato, ma che in realtà scorre in un flusso armonico coinvolgente e mai noioso. E sempre in concorso, un’altra opera alquanto lenta, vista la quasi completa assenza di dialoghi e musiche: si tratta di Freedom, di Sharumas Bartas, che riconferma il suo stile fatto di poesia e immagini, bellissima in questo senso l’inquadaratura in primo piano del volto della protagonista, che piange mentre la sabbia l’avvolge e la nasconde.

Nella sezione Cinema del Presente, siamo rimasti entusiasti e annichiliti di fronte ad un giallo au contraire, Memento dell’americano Christopher Nolan, che sceglie di privare il suo eroe della facoltà della memoria breve e spinge lo spettatore a perdersi con esso nel tentativo di ritrovare il bandolo della matassa e di scoprire l’assassino della moglie per soddisfare la sua sete di vendetta.

Plausi all’iraniano Dayereh (The Circle) di Jafar Panahi, che dà voce, una volta ancora, agli ultimi degli ultimi: le donne, in questo caso ancora più inascoltate visto che si tratta di ex-carcerate che tentano invano di rientrare in una società che non ha più posto per loro; e al ceco Otesanek (intraducibile, si tratta di una leggenda popolare che non trova corrispondenti nel mondo occidentale, anche se si potrebbe definire come una specie di Pinocchio horror) di Jan Svankmajer, che, forte della sua esperienza con i burattini e come scenografo, firma un film surreale, grottesco e molto comico, memorabili sono le scene in cui la bambina protagonista si difende dai vari attacchi di un improbabile pedofilo ottantenne, che alla prima occasione favorevole viene colto da infarto.

E, per finire, nella parte dedicata alle note positive (che quest’oggi sono davvero tali) ci sono ben due film, di genere e stile completamente diversi fra loro: è stato, infatti, presentato in concorso il film più bello e ricco di emozioni, La virgen dos sicarios (La vergine dei sicari) di Barbet Schroeder. Il regista del Mistero Von Bulow descrive la città colombiana di Medellin attraverso gli occhi malinconici e disincantati di uno scrittore che vi ritorna dopo trent’anni e attraverso la storia d’amore che lega il protagonista ad un ragazzo sedicenne…un’amara denuncia della violenza estrema e gratuita, un disperato richiamo alla vita che si conclude con un pianto disperato e con uno sguardo rassegnato nei confronti di una società che ha già deciso il nome dei vinti e dei vincitori, una preghiera o un rifiuto di un Dio che ha abbandonato l’umanità alle sue miserie.

E poi un omaggio ad un regista culto del cinema di Hong Kong, Tsui Hark che con Time and Tide ci regala davvero la sensazione di vivere in una dimensione di Sogni e Visioni…

Sara Borsani

4 settembre

Prosegue l’avventura festivaliera tra opere acclamate, piccoli capolavori e film molto attesi e deludenti; questa, aimè, sembra essere la strada più percorsa e davvero non si capisce come certi film possano essere stati inseriti da Barbera nella corsa al Leone d’oro.
Il caso più eclatante sembra essere quello del film di Guido Chiesa, Il Partigiano Johnny, tratto da un romanzo di Fenoglio: ben pochi sono stati gli applusi per questo rifacimento cinematografico sulla Resistenza, della durata di due ore e quindici minuti, che non convince assolutamente e che è stato accolto con fischi e con grida quali “Vergogna”. Vuoi il soggetto non facile, il dibattito sulla Resistenza è ancora molto vivo ed incerti sono gli esiti di questa discussione storica che divide in due l’Italia degli intellettuali, vuoi la scelta non felice di molti attori, in primis Stefano Dionisi e Claudio Amendola, ma il film non trasmette molte emozioni e il ritmo inesistente non fa altro che prolungare questa agonia. È un peccato perché Guido Chiesa aveva dato prova di estrema sensibilità in altre sue produzioni, forse le premesse erano state troppo ottimisitche, soprattutto quando affermava “Il Partigiano Johnny, di questi tempi, è una sfida e un desiderio. La sfida dell’inattualità, il desiderio dell’autenticità…Piccole grandezze per il mediocre giorno che ci aspetta”.
Un’altra grande delusione proviene dal film si Sally Potter, The man who cried (L’uomo che pianse); chi aveva amato “Orlando” ed era rimasto un po’ sorpreso da un’opera come “Lezioni di tango” con questo film si trova completamente spaesato, non riuscendo assolutamente a capire cosa la regista volesse fare…forse un film grottesco, forse qualcos’altro, sicuramente non un’opera da presentare a Venezia (e anche qui ringraziamo Barbera); la storia non regge, in un medesimo calderone si ritrovano elementi che fra loro non riescono a legare: l’emigrazione in America, la fuga degli ebrei russi, la difficoltà di adattamento in un paese straniero, l’emarginazione degli zingari, il fascismo e la musica, che dovrebbe essere il filo conduttore, un legame profondo e che in realtà si traduce in una bella colonna sonora. E nemmeno gli attori possono fare un granchè: Turturro costretto a parlare in italiano con risultati alquanto risibili, la Ricci musa atterrita e quasi invisibile, Johnny Depp che si aggira come pallida ombra con il suo cavallo bianco. Che dire, sicuramente è un film che molti andranno a vedere richiamati dalla presenza di cotanta bellezza fisica, ma che annoia e diverte per l’estrema inutilità. Salvabili sono i primi cinque minuti, la splendida fotografia di Sacha Vierny e l’interpretazione di Cate Blanchett…un piccolo cameo di una novella Marlene.
E veniamo alle note positive, che continuano a risollevare il morale dei giornalisti accreditati: Chabrol trasmette una volta ancora emozioni ed estetismo con questo suo film noir, Merci pour le chocolat, “Grazie per il cioccolato”, con una splendida Isabelle Huppert, che con due film in concorso si candida di diritto al premio per la miglior attrice protagonista. Il regista francese riesce a delineare con eleganza una storia incentrata su una famiglia dell’alta borghesia svizzera, che fra musica e cioccolato mette in scena i drammi e i piccoli peccati della società moderna, l’egoismo, l’invidia, il senso di perdita; grande maestro della psicologia, Chabrol risulta sopraffino nella descrizione della perfetta donna, Isabelle Huppert, e delle sue manie omicide che non sempre hanno un buon esito.
Molto forte e toccante anche il flm portoghese presentato nella Settimana della critica; si tratta di Noites, “Notti”, opera prima della giovane regista Claudia Tomaz. Un film sul malessere della vita, sull’impossibilità di fuga che costringe due ragazzi tossicodipendenti a vivere giorno dopo giorno il loro dramma; una storia dura, ma nello stesso tempo delicata, che si sofferma sugli sguardi tristi e persi dei due protagonisti, che indugia sulla lentezza delle loro esistenza, sul loro senso di perdita e di sconfitta.

E per concludere, il film più bello di questi due giorni: Before Night Falls di Julian Schnabel.
È la storia dello scrittore omosessuale cubano, Reinaldo Arenas, raccontata attraverso i ricordi, le poesie e la voce del protagonista, interpretato magnificamente da Javier Bardem; un film conivolgente e poetico, mai scontato (forse un po’ nel finale), con due chicche davvero esilaranti: la presenza di Sean Penn nel ruolo di un carrettiere, e di Johnny Depp, alias Bob Bon ed il Tenente Victor, irresistbile nei panni del travestito ammiccante.

2 settembre

Arrivata alla sua quarta giornata, la Mostra del cinema di Venezia sembra non aver ancora deluso la platea di giornalisti e spettatori accorsi in gran numero da ogni dove: i primi, a mio avviso, non si possono affatto lamentare per la qualità dei film presenti in concorso e non (sia quelli affascinati dalle vecchie glorie come Altman e Oliveira, sia quelli, ed è il caso della sottoscritta, che amano le nuove strade intraprese da un certo tipo di cinema); i secondi per l’arrivo di altri due divi bellocci: Harrison Ford e Michelle Pfeiffer, e per la partecipazione massiccia di tutto un corollario di presenze televisive e modaiole (sono riuscita ad assistere ad un assedio condotto ai danni di Francesco Salvi, e non me ne spiego il motivo) che imperversano nel giardino del casinò, sulla famosa terrazza dell’Excelsior…

Gabriele Salvatores
GAbriele Salvatores
regista di Denti
Ripresami dalla noia mortale che mi aveva colto dopo la visione di Palavra e Utopia ("Parole e Utopia"; non me ne vogliano i lettori amanti di Oliveira, ma due ore di sermoni, prediche, discussioni teologiche con una macchina da presa che è rimasta perfettamente immobile, con un primo piano di cinque minuti di un quadro fiammingo mentre le parole scorrevano in sottofondo non rendono giustizia né alla figura di Padre Antonio Vieira, un gesuita più volte condannato dall’Inquisizione per la sua devozione nei confronti dei più poveri e derelitti, né al suo grandioso interprete sullo schermo, Luis Miguel Cintra, né al regista stesso che sempre a Venezia aveva vinto due premi nel 1985 con O sapato de Cetim e nel 1991 con A Divina Comedia), sono rimasta letteralmente entusiasta del piccolo film di Garrone (del quale avevo già accennato in precedenza), sia per una splendida colonna sonora firmata dalla Banda Osiris, sia per la gentilezza della regia, che scruta non vista i protagonisti di questa storia a volte un po’ surreale, a volte malinconica, sia per l’interpretazione di Rossella Or (superba attrice di teatro che con la sua aria sperduta e fragile riempie lo schermo).

La giornata di ieri, che si era aperta con un poco convincente film di Raul Ruiz, è proseguita nel segno di un cinema orrifico, psicologico, onirico, a tratti un po’ fastidioso: prova ne siano gli svenimenti di due giornaliste allo spettacolo del coreano "L’isola" e il malessere fisico che ti coglie assistendo alle torture dentistiche alle quali viene sottoposto il povero Sergio Rubini in "Denti" di Gabriele Salvatores (film che sconsiglio vivamente sia a quelli che non provano molta simpatia per il regista, anche se i più temevano un film ben peggiore di quello che in realtà è stato…non si può, infatti, negare la sua bravura dietro alla macchina da presa, ma i suoi deliri metafisici un po’ anni Settanta poco convincono…sia a quelli che provano un terrore irrefrenabile quando vanno dal dentista, e vi assicuro che la mia visione pessimistica della categoria non ha fatto altro che peggiorare); in confronto a questi, il film di Kitano, che io ho trovato sublime ed irresistibile, che si annunciava come un'escalation di violenza gratuita, in realtà ha fatto molto sorridere, vuoi per gli intermezzi grotteschi, vuoi perché la visione orientale del sangue et affini è sempre leggera ed ironica.

E come sempre, una piccola nota su quello che molti (o pochi, visto il numero dei giornalisti in sala) dei presenti hanno trovato essere il film più bello e vivo delle opere fino ad ora presentate: si tratta dell’iraniano Roozi Keh Zan Shodam, "Il giorno in cui sono diventata donna", di Marziyeh Meshkini; un’opera intensa, fresca, poetica che narra della situazione femminile iraniana…un film gentile e toccante presentato nella Settimana della critica e che potrebbe sicuramente aspirare a qualche premio.

Sara Borsani

31 agosto

La seconda e la terza giornata della Mostra sembrano finalmente riportare l’attenzione sui veri protagonisti dell’evento: i film. Svaniti gli echi della presenza di Clint Eastwood (non ho voluto proporre una vera e propria recensione del film, limitandomi solo a qualche accenno, perché credo che se ne sia parlato fin troppo, i giornali abbondano di critiche più o meno serie, più o meno attinenti, e soprattutto perché ritengo più giusto rivolgere la mia, e la vostra, attenzione a film che altrimenti non godrebbero di attenzione alcuna) e di Sharon Stone, la manifestazione acquista i ritmi di una frenetica rincorsa alla visione, le conferenze diventano, finalmente, luoghi di incontro e di riposo, in cui, conclusasi la lotta per immortalare il divo più acclamato (ebbene sì, sempre lui…anche se a parer mio è apparso il più annoiato e noioso del quartetto di vecchie glorie), è possibile rivolgere domande intelligenti in un’atmosfera tranquilla e rilassata. È vero, aimè, che si apre l’annuale e annoso dibattito sulla qualità vera o presunta delle opere presenti, ma non se ne può fare a meno, come non si può evitare l’incontro con giornalisti boriosi dotati di mille risposte, ma privi di una forma intelligibile di favella, di divette poco divine che per un autografo o per una foto sono disposte ad un tour de force che non ha nulla da invidiare quello a cui sono sottoposti i giornalisti…e via dicendo, nel Grand Guignol delle Mostre cinematografiche.

Tralasciando il film di Altman, Dr. T and the Women, con il belloccio Richard Gere nei panni di un piacente e ammirato ginecologo di Dallas, attorniato da un harem di bellezze femminili, (che la sottoscritta non ha visto, e se ne scusa con gli ammiratori, per una lunga serie di motivi, fra cui: la fame, una coda interminabile che non si era mai vista in questi tre giorni e raccoglieva un vasto panorama di giornaliste, vecchie e giovani, ma tutte accumunate dalla stessa passione, una profonda repulsione per il protagonista maschile e lo scarso interesse per la vasta gamma di nevrosi femminili messe in scena da Altman), sono stati presentati i primi quattro film in concorso: il sopracitato Dr. T and the Women, il primo film italiano I cento passi di Marco Tullio Giordana, l’indiano Uttara di Buddhadeb Dasgupta e Palavra e Utopia del portoghese Manoel de Oliveira.

Da segnalare anche alcune opere delle sezioni "Cinema del presente", come il francese La ville tranquille di Robert Guediguian e l’italiano Estate Romana di Matteo Garrone, e il primo film della Settimana della Critica, l’americano You can count on me di Kenneth Lonergan.

Una nota a parte la merita il film di Benoit Jacquot, Sade, con un senza dubbio magnifico Daniel Auteil, inserito nella sezione "Sogni e visioni": sarà stata l’ora tarda (vi sembrerò poco professionale, ma vi garantisco che alle due del mattino le immagini assumono una vita propria) o l’impressione poco piacevole avuta dalla protagonista femminile, che più che virginale trasmetteva una sensazione di nullità assoluta, ma il film non mi ha proprio convinta, forse mi aspettavo un qualcosa di più scabroso, di più forte…e data la fama del personaggio, a mio parere non poteva essere altrimenti, invece il regista si è soffermato sulla realtà storica e sull’aspetto oserei dire bonario che in quell’occasione distingueva il fantomatico marchese: ne deriva un’opera fastosa, esteticamente ineccepibile…ma con un pizzico di cattiveria mancante.

A voi l’ardua sentenza.

Le retrospettive su Eastwood continueranno per tutta la durata della mostra, ma è innegabile che oggi è stata la sua giornata. Fra le mille critiche che seguiranno, positive o negative, resta il fatto che a torto o a ragione (e non credo sia questa la sede per un giudizio definitivo) Clint Eastwood rimane uno degli ultimi protagonisti di un certo tipo di cinema, quello in cui trionfa la figura dell’eroe, quello dei finali moraleggianti…quello di un’attenta cura formale delle immagini…quello dell’intramontabile mito americano.

Sara Borsani

29 agosto

Clint Eastwood
Clint Eastwood
durante la conferenza stampa
Ha visto oggi il suo inizio, in un clima di placida indifferenza, il grande circo della 57 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: le critiche per la presenza più o meno consistente della rappresentativa italiana sono state per un attimo messe in disparte e la stampa sembra destreggiarsi ora fra la conquista di un casellario (e relativi gadgets) e la caccia alle poche vere star presenti a questa edizione; da segnalare, infatti, oggi per gli amanti della celebrazione del divismo del nuovo millenio l’arrivo a Venezia di Sharon Stone e Richard Gere.

Vero è che il panorama cinematografico di questa prima giornata lasciava al quanto a desiderare; sono stati, infatti, presentati l’ultimo film di Clint Eastwood, osannato in patria non solo dal vasto stuolo di ammiratori, ma anche da una nutrita fetta dell’intellighenzia di critici di sinistra (mentre in Europa è stato accolto con una certa freddezza e indifferenza), e il film-documentario a lui dedicato.

La stampa è stata invitata a mantenere il più stretto riserbo su Space Cowboys almeno fino a giovedì…non si capisce bene per quale motivo visto che il film è già stato distribuito in America e in Italia da giorni assistiamo impotenti ad un’invasione di immagini (trailers, interviste, speciali e quant’altro), l’invito comunque sembra uno di quelli a cui non si può opporre alcun rifiuto visto che sul comunicato distribuito ai giornalisti si parla di un vero e proprio embargo. Quello che posso anticiparvi è che si tratta di un’opera che consiglierei a pochi e che non conquisterà sicuramente quella parte di spettatori o cinefili, un po’ intelletual-chic o amanti dei piccoli capolavori indipendenti. Alla prima proiezione della stampa, infatti, le più entusiate erano le giornaliste, seguite dagli amanti dell’auto-ironia trasposta sullo schermo, da coloro che non resistono ai film che celebrano la grande potenza americana e dagli eterni sognatori, disposti a tutto pur di guardare la Terra da una diversa prospettiva…dimenticavo: qualsiasi sia la vostra scelta, è indispensabile godersi la visione in un cinema dotato di un ottimo sistema Dolby Srd Digital.

Di tono sicuramente diverso è il documentario Clint Eastwood- Out of shadows (Clint Eastwood-Fuori dall’ombra) dell’americano Bruce Ricker, un regista specializzato nella realizzazione di opere culturali sul jazz e sul blues. E proprio l’amore dichiarato di Clint Eastwood per la musica jazz è il filo di Arianna che sembra legare fra loro i vari episodi di questa celebrazione, di questo inno che esalta la figura e le scelte professionali del settantenne regista americano. Ricker ripercorre passo dopo passo l’intera carriera di Eastwood, sottolineandone le scelte difficili e a volte pionieristiche; discutibile è la trovata di inserire le interviste fatte alla madre o alle persone che hanno lavorato con lui (le lodi tessute risultano fin troppo perfette, tanto da difettare di spontaneità), mentre di grande valore risultano essere i contributi visivi e filmici: i back-stage realizzati durante la lavorazione al fianco dei due grandi registi e maestri di Eastwood, Sergio Leone e Don Siegel, i discorsi rubati sul set, il parere di autorevoli critici, quali Scorsese.

Il film è un riassunto filmato della vita artistica dell’attore e regista, Eastwood, e come tale non poteva non essere un tributo alla sua opera; al di là di questo, al di là, cioè, che si apprezzi più o meno il suo lavoro, non si può non apprezzare il tentativo di tracciare una biografia che non si limiti ad una sterile sequenza di immagini, ma che cerchi anche, e soprattuto, di unire la figura di uomo al suo ruolo nel mondo della celluloide…ne deriva, così, un viaggio introspettivo che esalta le sue scelte coraggiose e per l’epoca innovative, senza tralasciare una certa dose di esaltazione e il tentativo più o meno riuscito di mettere in luce anche i momenti negativi, dovuti non solo alla ricerca di un successo finanziario, ma anche alla sua voglia di emergere nel gota internazionale dei registi di culto.

Le retrospettive su Eastwood continueranno per tutta la durata della mostra, ma è innegabile che oggi è stata la sua giornata. Fra le mille critiche che seguiranno, positive o negative, resta il fatto che a torto o a ragione (e non credo sia questa la sede per un giudizio definitivo) Clint Eastwood rimane uno degli ultimi protagonisti di un certo tipo di cinema, quello in cui trionfa la figura dell’eroe, quello dei finali moraleggianti…quello di un’attenta cura formale delle immagini…quello dell’intramontabile mito americano.

Sara Borsani


Tommy Lee Jones
(clicca sulla foto per spedirla come web cartolina)


Archivio:
1998 - 1999

 

 

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