Madre e figlia trovano uno spazio comune: casa

4. La Cina dell'interno in espansione fuori dalla tradizione.
Jia Zhuang mei can jue di Xiaolian Peng


Queste Donne di Shangai affiancano gli uomini di La Doccia, che ha trovato una distribuzione italiana premiata dal meritato successo di pubblico; e contemporaneamente sembrano condividere i tremori della Locanda della felicità. In comune le tre pellicole hanno: il timore per la precarietà del futuro non ancora chiaro nei suoi contorni, e la consapevolezza di vivere una svolta epocale, che trascende la tradizione incarnata dalla madre o le figure dei mariti, ancorati a rapporti arcaici di vessazione padronale; il modo ellittico di narrare, che è sempre in qualche modo metaforico e quindi a cominciare dagli ambienti e dalle stanze teatro delle schermaglie tra universo femminile e pretese di supremazia maschile, assistiamo a un uso dell'inquadratura costretta in spazi che rimandano a quelli che attorniano, sicuramente presenti fuori quadro, ma non per questo più accoglienti e spaziosi; la regista gioca con maestria sull'alternanza tra inquadrature che collocano i soggetti ai margini laterali del quadro, lasciando al centro l'ingombro di oggetti che non consentono la comunicazione o comunque dividono ulteriormente, e fotogrammi saturati al centro all'inverosimile dai singoli che occupano l'immagine senza per questo esaurirla, inquanto gli oggetti che occhieggiano lasciano trapelare un ambiente esterno all'inquadratura che incombe attorno e dietro di loro. E la costrizione si palpa sia nei tagli che dividono spesso ulteriormente il quadro, sia nella divisione sempre netta degli spazi appannaggio dei singoli, protetti da shoji che scorrono in primo piano o da specchi che, lungi dal duplicare l'ambiente, lo comprimono ulteriormente.

Ogni centimetro di pellicola girato corrisponde a un centimetro conquistato nello spazio vitale di queste due donne in perenne vagabondaggio presso stanze di case maldisposte a ospitarle: a cominciare da quel padre-marito che innesca tutto il plot giungendo a preferire l'amante e quindi a cacciarle, in bici e stracariche di masserizie; per proseguire con la madre-nonna, durissima e inflessibile custode della tradizione, che le tollera per poco tempo; arrivando a un possibile compagno-patrigno che contrappone la propria coppia maschile costituita col figlio a quella delle due donne, dimostrando quanto sia ancora enormemente fallocentrica la società cinese .
E non si può certo parlare di solidarietà femminile, laddove è una lotta costante con umiliazioni e delimitazioni di territorio feroci.

Un esempio di cinema senza sbalzi, proprio quello del festival, che però contiene in sé tutti i temi dell'attualità, mostrando nell'ambito orientale di individuare quello che viene proposto dal cinema mainstream da laggiù proveniente. Chiaro che poi certo cinema coreano o la quasi totalità di quello neoneiga nipponico perseguono fini di spettacolare originalità e stupore inarrivabili, ma questo è ambito diverso da quello di un festival il cui interesse s'annida nella ricerca di quel cinema medio, senza fenomeni urlati o sperimentali, meno attento alla tecnica di quanto non badi al contenuto, più domestico delle cinematografie non imbrigliabili se non nelle rassegne curate dai laureandi di Dario Tomasi nelle sale del museo del cinema di Torino, dove può scatenarsi pure l'Audition di Takashi Miike.

Quando abbiamo visto il film, pericolosamente vicino alla regista, la Sars non era ancora un'epidemia millenaristica, eppure qualcosa di mortifero sorgeva da quella Shanghai, da quel fiume mefitico. Da quegli spazi angusti: gli androni intasati e sporchi, le case divise nei loro spazi dove il padre occupa un'intera stanza e anche l'inquadratura risulta divisa dallo stipite, relegando la figlia in uno sfocato secondo piano impossibilitata a condividere anche lo spazio con il padre, l'obiettivo fissato sui 50 mm per rendere ancora più stretto il campo ripreso in interni, è la trovata più bella del film che si inserisce nella corrente di film pseudo-realisti inaugurati dalla nostra distribuzione con Biciclette di Pechino: là si considerava l'abissale distanza tra città e campagna e l'urbanistica serviva a segnare tutte le differenze tra i singoli personaggi, mantenendosi però per lo più in esterno; in La Doccia l'importanza del quartiere sta nel fatto che è destinato a sparire; qui invece l'architettura più significativa è quella di interni, di shoji che delimitano confini, di pertugi con letti affastellati, di soluzioni di fortuna, unità abitative piene all'inverosimile di oggetti di scarso pregio, spazi (quelli della nonna) liberati dal caos per rimanere imbalsamati nel riflesso di specchi che hanno la funzione di allargare le anguste pareti, unico andito pulito del film, inondato di una luce naturale (antica), ma solo per sottolineare un paradiso del passato perduto da cui la protagonista è stata allontanata con il matrimonio e non ha alcun diritto di ritornarvi, pena entrare in collisione con il resto della comunità femminile. Quello che si percepisce pesantemente come una cappa oscurantista è la conseguente dipendenza da qualcuno che controlla lo spazio domestico abitativo, tanto che quando alla fine la donna riesce a entrare nell'ottica di idee e nella condizione di affittare autonomamente un'aloggio per quanto fatiscente e da ristrutturare, la luce, la vista su Shanghai e il campo si allargano, si offrono a una speranza di uscire dall'oscurità che fino ad allora pervadeva la prossemica degli ambienti.