Queste
Donne di Shangai affiancano gli uomini di La
Doccia, che ha trovato una distribuzione italiana
premiata dal meritato successo di pubblico; e
contemporaneamente sembrano condividere i tremori della
Locanda della felicità. In comune le tre
pellicole hanno: il timore per la precarietà del futuro
non ancora chiaro nei suoi contorni, e la
consapevolezza di vivere una svolta epocale, che
trascende la tradizione incarnata dalla madre o le
figure dei mariti, ancorati a rapporti arcaici di
vessazione padronale; il modo ellittico di narrare, che
è sempre in qualche modo metaforico e quindi a
cominciare dagli ambienti e dalle stanze teatro delle
schermaglie tra universo femminile e pretese di
supremazia maschile, assistiamo a un uso
dell'inquadratura costretta in spazi che rimandano a
quelli che attorniano, sicuramente presenti fuori
quadro, ma non per questo più accoglienti e spaziosi;
la regista gioca con maestria sull'alternanza tra
inquadrature che collocano i soggetti ai margini
laterali del quadro, lasciando al centro l'ingombro di
oggetti che non consentono la comunicazione o comunque
dividono ulteriormente, e fotogrammi saturati al centro
all'inverosimile dai singoli che occupano l'immagine
senza per questo esaurirla, inquanto gli oggetti che
occhieggiano lasciano trapelare un ambiente esterno
all'inquadratura che incombe attorno e dietro di loro.
E la costrizione si palpa sia nei tagli che dividono
spesso ulteriormente il quadro, sia nella divisione
sempre netta degli spazi appannaggio dei singoli,
protetti da shoji che scorrono in primo piano o da
specchi che, lungi dal duplicare l'ambiente, lo
comprimono ulteriormente. |
Ogni
centimetro di pellicola girato corrisponde a un
centimetro conquistato nello spazio vitale di queste
due donne in perenne vagabondaggio presso stanze di
case maldisposte a ospitarle: a cominciare da quel
padre-marito che innesca tutto il plot giungendo a
preferire l'amante e quindi a cacciarle, in bici e
stracariche di masserizie; per proseguire con la
madre-nonna, durissima e inflessibile custode della
tradizione, che le tollera per poco tempo; arrivando
a un possibile compagno-patrigno che contrappone la
propria coppia maschile costituita col figlio a
quella delle due donne, dimostrando quanto sia ancora
enormemente fallocentrica la società cinese . |
Un esempio di cinema senza sbalzi, proprio quello del festival, che però contiene in sé tutti i temi dell'attualità, mostrando nell'ambito orientale di individuare quello che viene proposto dal cinema mainstream da laggiù proveniente. Chiaro che poi certo cinema coreano o la quasi totalità di quello neoneiga nipponico perseguono fini di spettacolare originalità e stupore inarrivabili, ma questo è ambito diverso da quello di un festival il cui interesse s'annida nella ricerca di quel cinema medio, senza fenomeni urlati o sperimentali, meno attento alla tecnica di quanto non badi al contenuto, più domestico delle cinematografie non imbrigliabili se non nelle rassegne curate dai laureandi di Dario Tomasi nelle sale del museo del cinema di Torino, dove può scatenarsi pure l'Audition di Takashi Miike.
Quando abbiamo visto il film, pericolosamente vicino alla regista, la Sars non era ancora un'epidemia millenaristica, eppure qualcosa di mortifero sorgeva da quella Shanghai, da quel fiume mefitico. Da quegli spazi angusti: gli androni intasati e sporchi, le case divise nei loro spazi dove il padre occupa un'intera stanza e anche l'inquadratura risulta divisa dallo stipite, relegando la figlia in uno sfocato secondo piano impossibilitata a condividere anche lo spazio con il padre, l'obiettivo fissato sui 50 mm per rendere ancora più stretto il campo ripreso in interni, è la trovata più bella del film che si inserisce nella corrente di film pseudo-realisti inaugurati dalla nostra distribuzione con Biciclette di Pechino: là si considerava l'abissale distanza tra città e campagna e l'urbanistica serviva a segnare tutte le differenze tra i singoli personaggi, mantenendosi però per lo più in esterno; in La Doccia l'importanza del quartiere sta nel fatto che è destinato a sparire; qui invece l'architettura più significativa è quella di interni, di shoji che delimitano confini, di pertugi con letti affastellati, di soluzioni di fortuna, unità abitative piene all'inverosimile di oggetti di scarso pregio, spazi (quelli della nonna) liberati dal caos per rimanere imbalsamati nel riflesso di specchi che hanno la funzione di allargare le anguste pareti, unico andito pulito del film, inondato di una luce naturale (antica), ma solo per sottolineare un paradiso del passato perduto da cui la protagonista è stata allontanata con il matrimonio e non ha alcun diritto di ritornarvi, pena entrare in collisione con il resto della comunità femminile. Quello che si percepisce pesantemente come una cappa oscurantista è la conseguente dipendenza da qualcuno che controlla lo spazio domestico abitativo, tanto che quando alla fine la donna riesce a entrare nell'ottica di idee e nella condizione di affittare autonomamente un'aloggio per quanto fatiscente e da ristrutturare, la luce, la vista su Shanghai e il campo si allargano, si offrono a una speranza di uscire dall'oscurità che fino ad allora pervadeva la prossemica degli ambienti.