Il progetto di cui fa parte questo documentario pagato dal Coordinamento Donne dello Spi Cgil si chiama Il coraggio del dialogo - Due popoli, due stati; evidentemente è programmatico e accantona l'altra idea - forse più radicata nella tradizione di due popoli che per loro fortuna non avrebbero il senso dello stato e che probabilmente devono le loro attuali sfortune proprio alla pretesa di innestare questa idea astratta in un ambito che non lo prevede. L'altra idea era quella della convivenza delle due comunità. |
È l'assenza di stato e costituzione (per entrambi tuttora: Arafat governa senza stato e Israele ha strutture statali minate costantemente dall'assenza di costituzione e regole che possano entrare in collisione con l'esegesi biblica di ortodossi invasati) che produce la sopraffazione del più forte e la debolezza della risposta integralista, maggioritaria per contrapposizione, o è proprio il tentativo di introdurre questi due concetti a sctenare un conflitto prima di tutto all'interno delle due comunità per adottare quella rivoluzione istituzionale e poi tra i due popoli spinti a spartirsi territori (è forse uno dei pochi luoghi dove si lotta ancora per i confini e non per il controllo economico)? |
Manca una via di mezzo, una posizione che non imponga strutture esogene ma che solleciti il cambiamento, una proposta che rifiuti di imbrigliare nei "muri" in costruzione, di cui anche le componenti laburiste sono paladine in Israele, perché è un passaggio verso la Costituzione ci spiega la regista, ma che sia in grado di rivendicare un affrancamento dall'oscurantismo religioso di entrambi i fronti: questo ha terrorizzato la regista della situazione attuale, l'aumento di integralismo da entrambe le parti. E le donne sono le vittime predestinate ogniqualvolta l'ortodossia religiosa si fa più minacciosa. Forse la serie di volti di donne presentati dalla regista cerca proprio di trovare una soluzione di questo tipo: infatti s'inizia con "Storie che gli uomini non narrano..."
Ada Sereni Feinberg inaugura questa galleria di
donne: un personaggio mitico dell'esperienza
antiautoritaria legata ai kibbutz, che scopriamo ancora
molto attivi, sebbene lo stato sempre più confessionale
li soffochi. E infatti le immagini che collocano questa
storica figura nel kibbutz Y'run sono solari, narrano di
saggezza e capacità di resistere a sirene falsamente
modernizzatrici in contrapposizione con l'oscurantismo
del quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, dove è
palpabile l'oppressione (e basta confrontare la
testimonianza della ragazzina-colona intervistata in
Promises
- citato nel film di Condorelli - per evincere quale
spazio possono avere le donne nella società vagheggiata
dai rabbini).
L'approccio della regista è sia diacronico, come si evince
dall'attenzione prestata a mettere in scena tre generazioni
di donne, sia sincronico, perché si alternano tre donne
palestinesi e tre donne israeliane per realizzare questa
informazione di "genere" (inteso come femminile) che scava le
quotidianità fino a far risaltare la comunanza di pensieri e
valori delle donne, che hanno reazioni e paure simili, e le
intervistate stesse colgono subito qual è il punto
dell'involuzione: «Quando si è sotto pressione, ci si attacca
a quello che si conosce»... Una guerra che ci modifica da
dentro; ecco perché hanno così largo seguito i movimenti
reazionari da un campo e dall'altro. Mentre sembra un ufo
l'assenza della proprietà privata del kibbutz di Ada Sereni
intrecciata strettamente nel montaggio con l'insegnante Ruth
che mostra ai bambini (e fa vedere a noi i ragazzi mentre
guardano) Promises, perché è l'immaginario martellato
da Sharon da rieducare - e questo dovrebbe essere un
documento da mostrare ai miopi che solitamente inorridiscono
unilateralmente per i manuali palestinesi che incitano
all'odio verso i coloni - e si torna ad Ada che chiosa: «La
cosa molto tragica moralmente è che siamo conquistatori». Un
viaggio in realtà dimenticate dalla vita a Tel Aviv, come è
un sogno - in cima ai desiderata delle ragazze palestinesi
coinvolte nel film - viaggiare, studiare, ma soprattutto
muoversi in libertà, senza i checkpoint che, abbiamo visto
sia in Intervento divino di Suleiman, sia in
Masharawi, informano di sé ogni aspetto della vita
quotidiana, opprimendo (e quella "normalità" è il modello che
i vari Rumsfeld, Chaney, Bush,... perseguono come futuro) e
costituendo un incubo poliziesco che condiziona ogni impegno,
appuntamento, esame, la vit a e la morte, fermando anche le
ambulanze.
Un'altra israeliana prova a pronunciare "Israstina" un paese
inesistente, accettabile per vivere sulla stessa terra. Ed è
qui che si inseriscono tre donne ebree in contrapposizione
con l'integralismo religioso israeliano: tre condizioni di
madri montate sulla base della reazione: una donna trae dal
passato (l'uccisione di un figlio) la forza per affrontare il
presente, una è ben radicata nel presente, giornalista di
Haretz che imporrà (l'autorità materna della società
israeliana non è una favola) ai figli la scelta di essere
refusnik; l'ultima è disorientata, confusa, immobile...
perché licenziata dalla spaventosa crisi economica. In tutt'e
tre i casi la prospettiva si ferma al presente. No
future.
Due definizioni di identità concludono il video: Angelica,
ebrea la fa coincidere con ciò che si è imparato, acquisito
nella vita; per Abla, palestinese, significa che «esiste una
donna palestinese».