Festival Internazionale Cinema Giovani

Recensioni
Annotazioni sospese nel tempo "reale" del Festival

Spotlight su Arturo Ripstein
Mentiras Piadosas
di Arturo Ripstein
Mexico 1988

35mm. 111´, col.

Soggetto e Sceneggiatura: Paz Alicia Garciadiego. Fotografia: Ágel Goded. Scenografia: Juan José Urbini. Costumi: A.Cortés, Victor Balderas. Montaggio: Carlos Puente. Musica: Lucía Álvarez. Suono: Daniel García. Interpreti: Alonso Echanove, Delia Casanova, Ernesto Yáñez, Luisa Huertas, Fernando Palavicini, Leonor Llausas, María de Jesús Villers, César Arias, Ulises Juárez, Ana Venus, Román Echanove. Produzione: Jaime Casillas, per Fílmicas Internacionales, Universidad de Guadalajara, STPC, ANDA.

Ultima proiezione: venerdì 21, ore 9.00 Cinema Massimo Due

Una caratteristica tipica del cinema di Ripstein: ambienti stipati di oggetti, i più disparati; stanze ingombre di ogni genere di trovarobato, case ammantate di una patina di stantio, come avvolte da una pellicola fatta di tempo, che impolvera persino lo schermo e talvolta congloba anche persone, non ritagliate dal fondale, sul quale rimangono depositate, quasi fossero ombre di un passato transitato per quegli anditi marroni, senza rilievo, nè spessore, come incise nei muri. Presenze silenziose. Manichini.
Infatti in questo film la presenza di pupazzi di cera rende ancora più barocca la scena, un´accumulazione che non si vedeva dal film più estremo di Fassbinder (Berlin Alexanderplatz): nel negozio di Israel è probabilmente un´impresa disperata eseguire un inventario, ma è ancora meno possibile per un soggetto liberarsi una volta inserito nel bric á brac ideato dal regista: ¨Il punto centrale dell´universo succhia la sorte dei curiosi¨ sarebbe proprio nel retro del negozio presso lo Zòcalo, dove viene sedotta Clara, dopo essersi sottoposta al rito magico per il male di vivere proveniente dalla sua resistenza alla passione, sdoppiato nella ripresa dalla presenza dello specchio che cattura e accentua il pot-pourri di ciarpame sparpagliato alla rinfusa, come la vita che l´attende. In molti film di Ripstein le donne si sentono soffocare dai rapporti afettivi e sono sempre in fuga. Magari solo verso l´altro lato dello Zócalo come nell´epilogo di Mentiras Piadosas, dove paradossalmente si confermano gli infondati sospetti di Israel, ma con il commento dell´aria dalla Madama Butterfly, quasi che sia lui ad abbandonarla, o meglio a spingerla a seguire il destino.
¨Le famiglie sono come pidocchi¨. Appena Clara decide di abbandonare i propri figli ed il marito parrucchiere (una scelta che torna dolorosamente anche in Profundo Carmesí, messa in scena per rimarcare l´impossibilità di resistere al turbine di passione e che qui viene inscenata nella sequenza in cui viene truccata da Matilde, inserendola nel plastico, per renderla un´immagine sacra della passione, che si strugge nella nostalgia), cominciano le angherie e viene costretta a sopportare ingerenze oltre il limite dell´assurdo.

Forse gli echi del cinema di Fassbinder ritornano pure per il rilievo della figura di Matilde, l´omosessuale con cui Israel sta costruendo un assurdo plastico kitsch, che dovrebbe riprodurre con qualche approssimazione l´antica Tenochtitlan su cui incombono le figure di Cuhautemoc e Montezuma probabilmente; un´impresa che funge da sfondo per la storia di passione, che trasforma, degradandola, la donna.
Matilde è un soprannome che trae origine dalla canzone di Belafonte in relazione alla stazza del maricon (Sei troppo grassa, non riesco ad abbracciarti, dice il testo). Egli viene ospitato da Israel in uno scantinato con l´improbabile modello da vendere ad un museo, ma soprattutto è il filtro attraveso il quale viene esplicitata la mutazione della visione del mondo da parte della nuova coppia. Egli dapprima della nuova malsana collocazione nello scantinato lamenta la convivenza con i manichini: ¨Mi fanno sentire strano¨, commenta rassegnato; quando il modello va distrutto assieme ai pezzi dell´amore tra Israel e Clara, Matilde rimpiange i pupazzi e quello strano altare di luci intermittenti ed elementari meccanismi meccanici, perché ¨erano gli unici che mi tenevano compagnia¨.

Nel cinema messicano esiste una tradizione di caratteristi di contorno, legata ai canoni del melodramma ivi molto coltivato, utili per i siparietti divertenti, fatti di gag esilaranti che stemperano la tensione senza annacquare le sventure descritte; nella poetica di Ripstein le molte situazioni che muovono al riso non cambiano l´umore, perché sono l´altra faccia di maschere tragiche ormai congelate nella disillusione, che in questo caso si scatena nella gelosia, il gretto risultato della consapevolezza che la realtà squallida dei tuguri distrugge le certezze nate nella passione clandestina, infiggendo i protagonisti in un senso di inadeguatezza, che produce vuoti di interesse. Dunque anche le risate prodotte dai caratteristi sono amarissime e si commutano in lacrime (il caso del marito di Clara) già al momento del loro intervento.

Il lavoro di Ripstein non rivela se l´insoddisfazione proviene dai sospetti e dalle pietose bugie del titolo, che peraltro non vengono pronunciate in quanto ognuno vive ormai in un universo che non interagisce con quello del compagno, o piuttosto se al contrario se non sia la condizione di disagio a produrre tradimenti. Una situazione fatale compresa nella solita frase ricorrente, in questo caso tautologica, che il regista si diverte a riproporre più volte nel film: ¨Quando succedono queste cose, succedono¨.

Adriano Boano


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