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11/11/1997
¡Qué viva México!
EL GRAN CALAVERA
di Luis Buñuel
Messico 1949

Soggetto: Rafael M. Saavedra. Sceneggiatura: Luis Alcoriza, Janet Alcoriza dalla piËce di Adolfo Torrado. Fotografia: b/n Ezequiel Carrasco. Scenografia: Luis Moya. Montaggio: Carlos Savage. Musica: Manuel EsperÚn. Suono: Rafael Ruiz Esparza, Jesús Gonzales Gancy. Interpreti: Fernando Soler (Ramiro), Rosaria Granados (Virginia), Andrés Soler (Ladislao), Rubén Rojo (Pablo), Gustavo Rojo (Eduardo), Maruja Gifell (Milagros), Framcisco Jambrina (Gregorio), Luis Alcoriza (Alfredo). Produzione: Utramar Films, Fernando Soler, per Oscar Dancigers.


Prossima Proiezione: sabato, 15/11 ore 22 MassimoTre

Il gran scapestrato si apre su quattro paia di piedi di dormienti ammucchiati. Lentamente li attribuiamo a quattro vagabondi, accomunati da un destino non edificante. Come spesso avveniva nelle trasposizioni di piéce a scopo moralizzatore, questo primo quadro riassume il messaggio della farsa basata sugli equivoci di una commedia sofisticata destinata a evolvere in una commedia picaresca. La commistione di sfumature comiche è ben sostenuta dal doppio sotterfugio, ordito ora ai danni del patriarca, scapestrato per il dolore della vedovanza (con un gustoso accenno al tema dell´amour fou in uno stile caro a Buñuel, quando scatta un improvviso accenno d´ira al nome della moglie morta associato inopportunamente), ora al resto de ¨la familia¨ (altro luogo retorico della poetica surrealista e della società messicana); sempre a fin di bene, ma con la sottile vena di sarcasmo buñueliano sempre pronta a colpire non solo e non tanto i baffi della madre del pretendente interessato, quanto il parassitismo delle classi abbienti.

Il luogo da cui s´inizia il film è il carcere (limitato ai pochi secondi della primissima sequenza), ma ciò che interessa è la promiscuitý che il protagonista, capitano d'industria dedito all'alcol (non ancora neo-liberista, ma già autoritario, direbbe Taibo), sopporta con tre compagni di sventura, simile al destino a cui sarà sottoposta la sua egoistica famiglia, trasformandone i componenti in poveri lavoratori nel gioco delle parti, stereotipato anche dalle caratterizzazioni macchiettistiche, ancorché molto divertenti a distanza di cinquant´anni. Come in un sogno (¨Credevo di essermi svegliato¨, dice Ramiro nel dopo sbronza, non riconoscendo la nuova collocazione in cui è costretto a scopo terapeutico dal fratello psicanalista Gregorio).

L´accenno al sogno, brevissimo e non più ripreso in seguito, non è l´unico tropo buñueliano che emerge da questa commedia di maniera, ma molto spiritosa, che si fonda su un piano di guarigione, che è sottile metafora di una classe sociale ammalata da curare, fatta di junior (figli di papà), di ragazze vacue e di fannulloni saprofiti. Probabilmente aveva anche una funzione un po´ didattica per i contemporanei, ma l´uso della farsa con scopi educativi risale ai primordi del teatro greco, sicuramente più interessante di qualsiasi insipienza alla Pieraccioni.

Esilarante è l´uso dell´altoparlante, oggetto emblematico che catalizza l´attenzione, fissato a scopi pubblicitari su un´improbabile automobile: risulta utile nell´economia del racconto non solo per risolvere elegantemente alcuni intoppi nell´intreccio, ma per scatenare alcuni momenti di dissacrazione (del matrimonio e dei riti cattolici nella più pura tradizione buñueliana) attraverso annunci pubblicitari corrosivi adattati al momento solenne, o a causa dell´inavvertita accensione del microfono, che estende la partecipazione della comunità.

Ma il vero Buñuel è quello che si ritaglia lo spazio della filippica di Pablo, l´elettricista (vero figlio del popolo, anch´egli stereotipo della solidarietà): una tirata contro la borghesia, volta a ribadire con fierezza e dignità d´altri tempi (ahimé!) la divisione tra classi sociali non amalgamabili. Vibra l´orgoglio di una rivendicazione di appartenenza come bisogno di distinguersi dal corrotto parassitismo ¨borghese¨.

Adriano Boano


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