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Torino Film Festival 2006

Le "Visioni" di Fulvio

1. Ma come si misura il successo di un Festival?
ovvero quanto è cool essere low profile a torino

 

Ci deve essere qualcosa di sbagliato nella mia percezione del successo.
Se vado al Salone del Libro, pardon, Fiera del Libro, mi sembra che ci sia sempre meno gente rispetto alle passate edizioni. È vero che tendo a evitare il sabato pomeriggio e la domenica come se fossero peste, ma gli altri giorni non vedo la ressa che ricordavo dai tre maggiori editori (leggi anche Mondadori, Einaudi, Rizzoli): niente zainettate sulla schiena, niente gomitate sui fianchi, poche scolaresche con buste piene di portachiavi, palloncini e cataloghi.
Eppure a Fiera ultimata i numeri sono sconvolgenti, perennemente in aumento e tutti sono felici.

Il direttore padreI direttori discepoli

Stessa cosa al Torino Film Festival.
Te ne arrivi al cinema e senti intorno un vociare distratto su come la selezione di questo anno sia un po' scadente, di come manchi, o non si sia ancora visto, il film veramente importante, quello che ti cambia se non la vita, almeno la giornata. Senza contare le solite lamentele di chi vorrebbe delle anteprime degne di nota o perlomeno delle vere anteprime.
Certo che chi voleva gustarsi Flags of our Fathers di Eastwood poteva tranquillamente andarselo a vedere al pomeriggio, prima della "prima" serale (riservata a fantomatici invitati, di cui nessuno sapeva nulla) dato che era già in programmazione nei cinema cittadini. O anche la regina glam Marie Antoinette, che ha anticipato di soli quattro giorni la sua uscita nelle sale. Il dilemma è: con tutte queste "pecche" è possibile che questa edizione sia stata un successo? La risposta è naturalmente sì, a riprova del fatto che io non capirò mai da cosa derivi o come possa essere quantificato il fattore successo.



Il successo con la S maiuscola è quello che ha accompagnato la neonata Festa del Cinema di Roma in cui "si rivivono i bei tempi della Dolce Vita" Ð Mollica docet, in cui "Hollywood torna sul Tevere". Le sfilate/passerelle dei divi a dare il cinque e a farsi fotografare dai cellulari. Ma francamente, può fregarcene qualcosa di tutta l'orpelleria che Wally V. ha mediaticamente concertato attorno all'evento? A me neanche un po'. E se devo essere sincero mi infastidisce non poco dividere la dicitura di capitale della cultura con la città dello scrittore cinefilo sindaco futuro premier Walter. E adesso un po' di sano gadanismo sabaudo: il vecchio Festival Cinema Giovani se ne fotteva delle star e delle anteprime, perché mostrava cose difficili e spesso uniche; sceglieva opere prime geniali o vaccate assurde (ma non dimentichiamo che molte di quelle vaccate furono il trampolino di lancio per alcuni - I figli ribelli del dio Neon, che con la mia solita lungimiranza definii "una mmerda, questo qui non farà più un film in vita sua" - o il ripescaggio di vecchie glorie - ma è possibile che nessuno abbia speso 2 parole di sdegno sulle ultime opere di Dario Argento, assolutamente inutili e prive della dose minima sindacale de paura?).
Il ToFF deve mantenere e consolidare la sua identità di festival di scoperta e ricerca; non mescolarsi con la frittura di pesce lagunare (maledetto Müller e la sua fame d'Oriente) o l'abbacchio capitolino (con i soldi dell'ex sindaco ora ministro). Fanculo tutti: restiamo tuma!



E dopo questo pippone sul Festival, veniamo alle visioni (ben poche stavolta) di questa edizione.
Che cosa si può dire di Big Bang Love, Juvenile A di Miike Takashi che possa essere più significativo delle occhiate di smarrimento e sconcerto del pubblico?
Formalmente impeccabile, è un'opera che sta a metà tra performance teatrale, installazione d'arte contemporanea, video sperimentale e espressionismo. La storia, se di storia possiamo parlare, vede i due protagonisti rinchiusi in un carcere dalle linee oblique in cui le celle sono ottagonali o semplici perimetri di gesso sul pavimento di un teatro di posa. Sono incarcerati per aver commesso due diversi omicidi. Fuori dal carcere un razzo scalda i motori. A fianco una piramide azteca si staglia verso l'infinito. Un amore non consumato. Una farfalla azzurra si posa sulla spalla. Un ragazzo della lavanderia fornisce il pretesto per un omicidio. Le uniformi gialle e lacere. Un caso di omicidio da risolvere attraverso testimonianze diverse - non è Rashomon. Un uomo rimane folgorato sulla recinzione. Botte da orbi. La farfalla disintegrata. Il rito di passaggio della virilità. I tropici su uno sfondo rosso. Stesse scene, angolazioni differenti. Il fantasma di una vittima. Una cornice che funge da stanza per gli interrogatori. Architettura e luci oblique. La pioggia attraverso il soffitto. Il ghigno del direttore. Il tatuaggio che sparisce.
Detto così non è molto chiaro, ma vi ho sintetizzato la sceneggiatura originale del film. Esempio di cinema da festival: non l'ho capito ma mi è piaciuto comunque.



Considerando il fatto che ho volutamente disertato Noroi - La Maledizione, perché sono esausto del binomio fantasma+tecnologia+maledizione che arriva dall'estremo oriente, ho optato per il giapponese in concorso The Pavillon Salamandre. Sono stato maledetto!
La domanda che TUTTI si sono posti è stata: "Ma vuoi dire che Müller si era preso tutto il meglio? Non c'era proprio nient'altro? no, perché neanche a raschiare il barile..." Film definito surreale (non so da chi) vede una miriade di personaggi ruotare intorno alla salamandra Kinjiro, divenuta patrimonio nazionale dopo l'Expo di Parigi. A parte le vicissitudini dei vari protagonisti (figlie orfane o balbuzienti, madri sorelle, radiologi Salvatore Giuliano, addetti alla sicurezza sfigati, matrimoni di sorelle, salamandre caricate a molla) che raramente riescono a strappare un sorriso (neanche le sigarette fumate 6 alla volta) o a emozionare, questo è uno di quei film per cui viene logico porsi la domanda: perché? Perché selezionarlo? Perché metterlo in concorso?



Per rifarmi decido di buttarmi sul secondo film di Hess, già regista del cult Napoleon Dynamite, che vede per protagonista Jack Black nei panni di un frate cuoco in un orfanotrofio sperduto del Messico che coltiva la passione segreta per la Lucha, il wrestling mascherato messicano.
Caricat! Puntat! Fuoco!
Avete ragione: è buonista, è favolistico, è semplice e semplificato, è banale.
Ma è FIKISSIMO. Gente in sala che si strozzava dal ridere. Tutto giocato sull'eccesso: dai protagonisti ai costumi, dalle pose "spettacolari" alle canzoni d'amore per la bella I-III-Incarna-A-aaa-tio-O-oo-on!, dagli stivaletti alle insalate sorridenti.
Assolutamente di culto. Con un amico discutevamo su come sarebbe stato tradotto il titolo originale Nacho Libre: da Un frate mascherato a School of wrestling a Nacho il frate wrestler. Hanno optato per Super Nacho. Suggerirei come sottotitolo: Patatine e margaritas.

continua...

a cura di
Fulvio Faggiani