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Torino Film Festival 2006

Sentiero tortuoso

1. Nihon globale

 

Il distacco da qualsiasi appartenenza a una tradizione, a dispetto di quello che in Occidente si associa al Sol Levante, è la cifra che sembra emergere dai film che da qualche anno provengono dall'arcipelago nipponico. Non è una affermazione da yamatologi, ma una constatazione che i temi, ma anche le forme si discostano progressivamente dagli stili associati al Giappone, anche quelli più recenti, americanizzandosi in produzioni imbarazzanti come Pavilio Sansho-Uo di Tominaga Masanori, oppure facendo proprie in un modo molto personale (e dunque ancora con un buon patrimonio genetico nazionale) certe situazioni estetizzanti più propriamente europee, come per il film di Miike Takashi, 46 oku nen no koi (Big bang love, Juvenile A).


Il regista di The Pavilion Salamandre presente in sala alla proiezione del film annuncia lapidario: "Il film insegue una pista, poi viene lasciata a metàÉ, ma potrete assistere a due film in uno solo". La dichiarazione, degna di uno slogan pubblicitario della serie "Paghi uno, ma prendi due", finisce con lĠessere veritiera, perché allĠinizio si insegue la sorte della salamandra Kinjiro, che nel 1867, durante il periodo Edo, lo Shogun aveva inviato a Parigi, per esibirla allĠEsposizione Universale. Più di un secolo dopo lĠanimale è ancora vivo ed è diventato un tesoro nazionale custodito dalla famiglia Ninomiya, responsabile di una fondazione per la tutela della salamandra. Il radiologo Tobishima viene incaricato da una associazione rivale (capitanata da un losco mafioso yazuka che sta per convolare a nozze con una delle sorelle Ninomiya) a effettuare esperimenti per dimostrare la reale longevità dellĠanimale in questione, che potrebbe essere stato sostituito da un esemplare più giovane. Azuki, la figlia del presidente della Fondazione Ninomiya, nel frattempo ha ricevuto dal padre lĠordine di sequestrare lĠanimale e di portarlo in un posto sicuro: lĠesecuzione della volontà paterna le dovrebbe consentire di conoscere la reale identità, non della salamandra, bensì della madre che non ha mai conosciuto. La giovane accetta volentieri, perché intenso è il suo desiderio di poter finalmente scoprire il mistero relativo alla sua nascita, unito alla voglia di poter sapere chi è la sua genitrice.

Il film mescola riferimenti alla simbologia leggendaria giapponese in materia di longevità di salamandre (pare vivano fino a 150 anni) a siparietti pseudo-comici mutuati da contesti culturali filmici esogeni, influenzati dalla frequentazione di immaginari di genere, andando persino a recuperare stereotipi di matrice italiana in materia di mafia: il risultato è una babele superficiale di situazioni che non fanno di certo sorridere lo spettatore occidentale. La materia risulta vecchia, a tratti persino ammuffita o fuorviante, basti pensare ai riferimenti al bandito Giuliano, ritratto come un eroe pronto ad aiutare i poveri e i bisognosi, quasi fosse una sorta di Robin Hood. Sicuramente in questo caso gli autori non hanno capito molto del fenomeno mafioso nostrano, assumendo invece solo l'aspetto folklorico nel loro sgangherato film.
Se lĠintento della prima parte dellĠopera è giocato sul desiderio di scoprire se la salamandra Kinjiro è reale o falsificata (e così ci ritroviamo nel dubbio consueto sul fake, visti anche i riferimenti alle Esposizioni Universali del periodo Liberty, che invece curiosamente era esotico), non diverge di certo la seconda parte (il film numero due che si può gratuitamente vedere), perché se da un lato è evidente che si tratta di una palese presa in giro di noti stereotipi filmici, dallĠaltro sembra troppo seriosa lĠintenzione di rimetterli in scena. Alla fine il contesto tradisce lĠambizione giovanilista di essere capace di fare del citazionismo, perché manca la profondità di campo, la trama non regge lĠinfluenza dichiarata e anche la sceneggiatura risulta debole.

Forse solo chi ha partecipato a collazionare direttamente lĠopera ha potuto divertirsi facendola e inventando ad esempio un camper per raggi X che recupera la tradizione giapponese per le situazioni estreme collocate al di fuori dell'ambiente domestico, ricreato in modo surretizio all'esterno della dimora classica; per gli altri è legittimo sorga la sensazione di assistere a unĠopera strampalata. LĠaccoglienza in sala è risultata estremamente tiepida e forse saranno necessari altri 150 anni per stabilire la reale natura di Kinjiro. Ma di questo al regista sembra dĠaltronde fregare poco, perché è riuscito comunque a tenerci 98 minuti seduti in poltrona, senza scivolare sotto come la vischiosità dei rettili consentirebbe di fare.
Anche il più ludico e televisivo dei Takeshi Kitano si dipanava più sull'arco del demenziale, trovando chiavi anche divertenti, in questo caso ci troviamo dalle parti del goliardico.



Le estetizzazioni di Miike Takashi sono imperniate sulla estrema potenza evocativa dei corpi plastici: il regista indovina quindi il legame tra danza e pulsione erotica, tra rituali camerateschi e gesti armonici, tra tatuaggi e loro animazione in momenti di confronto fisico e lotta per il predominio. Poi il confronto con il potere soggetto a luci e ombre espressioniste; repressione ininfluente con il rapporto esclusivo tra i due protagonisti... diventa a questo punto centrale l'assunto iniziale mitico, che va di conserva con quello rituale. Quest'ultimo ha una maggiore forza ma il prologo sulla origine e sull'espansione nelle varie direzioni spazio-temporali sarebbe da elucubrare meglio con il lettore avvolto anche lui in un'atmosfera espressionista e nuvole di fumo da tabacco, con quel direttore del carcere sulfureo e il sorriso satanico... solo che è meno incisivo, anzi a tratti sembra un po' fuori registro, con quelle piramidi che si confondono con i missili; un po' banale, scontato e anche confuso, meglio tornare nell'universo concentrazionario del carcere in cui si trovano i due ragazzi amanti, vittime e carnefici e in questo la tradizione nipponica in fondo trova una sua rivendicazione di appartenenza: forse è l'unica schietta espressione locale rispettata.


Noroi dal punto di vista dell'appartenenza culturale trova alimento nelle produzioni a cavallo tra televisione e sala cinematografica, dove però il cinema acquisisce soltanto gusti e prassi senza aggiungere peculiarità proprie, anzi, come avviene sempre più spesso in Giappone e Corea, lo schermo si scompone in digitalizzazioni, le scritte si moltiplicano e occupano lo spazio a disposizione anche sfruttando la maggiore gradevolezza grafica della scrittura per ideogrammi e anche i birignao sono occultati soltanto dal fatto che la televisione si mette in scena e quelli più fastidiosi sono direttametne evocati da una situazione televisiva che, paradossalmente, aggiunge veridicità alla finzione di realtà.
Anche in questo caso si avverte il gusto ormai stantio delle prime comiche di kitano Takeshi quando era "beat", ma l'influenza maggiore proviene dall'Occidente, nel migliore dei casi dalle esperienze televisive di Lynch, in quelli peggiori da Blair Witch Project. il vero problema è che si pensi di prendere a riferimento ancora adesso un film come quella bufala che fu sette anni fa. Ecco, è la cifra patente di quanto sia asfittico e invecchiato un festival che propone ancora queste operazioni, per quanto siano più sfumate e composite, più curate e sofisticate... il principio rimane lo stesso anche in questi film in cui potevamo aspettarci un localismo, che invece viene soffocato, se non per alcuni personaggi, come il sensitivo ce vive impacchetato nel domopak.

continua...

a cura di
paola tarino
adriano boano

se invece poi volete vedere un film come si deve: Broken Trails di Walter Hill