Reporter

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Reporter
<
reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
<<< torna alla portata precedente

Torino Film Festival 2003

Diario#03: sanguinaccio asiatico

... e abbiamo fatto bene a non pronunciarci subito sulle sorti della ventunesima edizione del festival del cinema di Torino!
Scoperte interessanti, riscoperte e novità.

 

Torino Film Festival - 2003

Su tutti, i film dello scomparso Kinji 'ku, regista visivamente eccessivo e geniale. Il suo Graveyard of honour è più veloce e folle del rifacimento di quello che può essere considerato il suo naturale erede: Miike Takashi. Movimenti di macchina vorticosi, fotografia che passa senza soluzione di continuità dal bianco e nero al colore al seppia, esplosioni di violenza senza senso, sangue a profusione, coraggio e codardia, tossicodipendenza in primissimi piani e politica. Soprattutto politica. 'ku non cerca assolutamente di mascherare o mediare il suo antiamericanismo. In Shin Jingi No Hakaba (Graveyard of honour) gli statunitensi sono invasori stupidi e ignoranti di ogni tipo di tradizione: «Pulisci dove sono passati loro. Che barbari. Non si tolgono neanche le scarpe per entrare in casa». Si può ricorrere a loro "usandoli" come spauracchio nei confronti del clan yakuza rivale, sono "pagati" per questo.


Il film delinea la figura di Ishikawa, uno yakuza che fin dal riformatorio ha deciso «di salire in alto, come un palloncino, così in alto, fino al punto di scoppiare». E in questo è un po' l'avo del Tony Montana di Scarface, senza nessun riguardo per le leggi del clan, senza il rispetto verso i capi, un cane sciolto in fuga verso l'autodistruzione. Guardando questo film è facilmente comprensibile come Tarantino possa dire di aver tratto spunto dall'opera di 'ku: è incredibile pensare a come un film del 1975 possa essere ancora così fresco, artificialmente e consapevolmente pop/pulp, supportato da vere e proprie scene di massa, con una colonna sonora degna dei migliori "Milano spara, Napoli s'incazza" e la cui menzione d'onore va ai completi gessati o a scacchi che indossa il protagonista: psycho!.


Anche l'ultima opera di 'ku Battle royale2, terminata dal figlio Kenta dopo la scomparsa del padre, è comunque interessantissima. Non al livello del primo Battle royale, questo seguito è un film dalla forte carica eversiva. Questa volta il gruppo di malcapitati giovani viene spedito sull'isola per uccidere i Wild seven, un gruppo terroristico formato dai sopravvissuti del primo episodio che hanno rifatto l'Undici settembre su tutti i grattacieli di Tokyo. L'apertura è infatti sui palazzi della capitale che letteralmente si inabissano, crollando come castelli di carte. Questa volta a Kitano tocca un piccolo cameo, il padre di una ragazza che vuole vendicare la sua morte, ma che alla fine passerà dalla parte dei terroristi. C'è anche il mitico Sonny Chiba (già tarantinato) nei panni del primo ministro che ordina l'invio delle truppe speciali per uccidere tutti e il successivo bombardamento per compiacere «quelli che decidono per tutti, quelli dietro i quali si sono accodate tutte le nazioni sviluppate». E c'è Riki Takeuchi (già protagonista per Miike nella saga ) che ricopre il ruolo che fu di Kitano e spiega ai giovani che «Giappone, Laos, Vietnam, Somalia, Serbia, Afghanistan, Nicaragua, Guatemala, Libia, Iraq, Iran, YugoslaviaÉ hanno in comune il fatto di essere stati bombardati da un nemico comune che è ora padrone dei destini del mondo». 'ku irride fino alla fine e provoca pescando nel genere: magistrale lo sbarco sull'isola che è la sua versione di Salvate il soldato Ryan fotografato con colori ancora più cupi, bui, sui quali si staglia il rosso del sangue dei morti. O ancora l'aggirarsi tra le macerie sotto lo sguardo dei cecchini che non può non rimandare al kubrickiano Full metal jacket. Spinge un po' troppo sull'acceleratore dell'emotivo (e a volte del retorico), ma l'idea che i Wild seven abbiano completato il loro addestramento terroristico in Afghanistan «un paese bellissimo, devastato dalla guerra, in cui gli abitanti non hanno però perso la dignità e gli occhi dei bambini esprimono la forza per un sorriso, per un futuro diverso» è geniale.


Tra le altre visioni di questo festival, va sottolineata la presenza della squadra coreana, ormai non più una sorpresa bensì una felicissima conferma.
Memorie di un omicidio di Joon-Ho Bong è un poliziesco dal taglio classico basato sulla storia vera di una serie di omicidi compiuti nella provincia di Seul negli anni ottanta. I due poliziotti che indagano sul caso sono agli antipodi per metodo: l'uno impulsivo, manesco e pluriesperienziato «posso riconoscere un colpevole semplicemente guardandolo negli occhi»; lÕaltro più giovane ma metodico e riflessivo. Molto naturalistico, il film riesce a creare un ottimo clima di tensione specie per gli interrogatori a cui vengono sottoposti i sospetti: in pratica spariscono per giorni da casa e vengono sottoposti a torture che alla fine rendono colpevole qualsiasi innocente. E poi le prove che vengono falsificate, i moti di piazza repressi nel sangue, le tecnologie per le indagini che non sono al passo con i tempi e costringono a tempi lunghissimi, i metodi decisamente poco ortodossi, ci danno uno spaccato della situazione coreana del periodo. Punto forte del film è il personaggio qualunque, accusato della serie di stupri e omicidi: impossibile capire se realmente colpevole, neanche lo sguardo del poliziotto riesce a sondargli lÕanima. Ma noi, come il giovane, siamo convinti della sua colpevolezza. Indimenticabile per i brividi che corrono lungo la schiena la sequenza della risaia. Notte. Pioggia scrosciante. Una donna sente qualcuno vicino a lei fischiettare il motivetto che lei sta cantando. Si guarda intorno. Sembra che non ci sia nessuno. Dalle risaie noi spettatori vediamo spuntare una testa che la segue con lo sguardo. Quando la donna si volta verso il punto, la testa si è nuovamente immersa in questo verde mare in movimento. La paura l'assale. Corre. Una musica di tamburi scuote le membra. L'assassino sbuca dalle onde della risaia. Fine.


Altra perla coreana, forse il più bel film del festival, è stato Salva il pianeta verde di Jun-Hwan Jang. Caotico, irriverente, divertentissimo e malinconico, terrorizzante, coloratissimo, pop, artigianale. Mi verrebbero in mente altri 50 aggettivi per questa opera che si è già aggiudicata il primo premio al festival di Mosca. Un giovane e la sua "fidanzata" rapiscono un ricco industriale di una multinazionale chimica, convinti che lui non sia umano, bensì un extraterrestre inviato sulla terra per conquistarla. C'è tutto il cinema orientale degli ultimi vent'anni nell'opera di Jang: l'artigianalità di Tsukamoto (i costumi e i marchingegni che i due indossano sono l'evoluzione de Le avventure del ragazzo palo elettrico); lo splatter di Miike (la crocifissione del cattivo e la sua liberazione: si "schioda" da solo); le acrobazie dei maestri del "volo"; la linea di tristezza dei melò di Hong Kong; l'uso della colonna sonora/leit motiv (Somewhere over the rainbow coniugata in tutte le sue accezioni, da Judy Garland a Barbra Streisand alla immancabile punk version); la palese citazione rivisitata (in questo caso la scimmia e il monolite nero della conoscenza da 2001 Odisea nello spazio montati con le immagini della follia umana: Olocausto, Vietnam, Palestina, scontri tra manifestanti e polizia); la coppia di poliziotti, maestro e allievo e il relativo passaggio di testimone; la presa di posizione politica (gli scontri in fabbrica)... A chiudere il tutto, il finale a sorpresa (che in realtà il 70% del pubblico si aspettava) e la fine totale della stupidità del genere che regna la terra.

continua...

Fulvio Faggiani