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Torino Film Festival 2003

Diario:

Non so se casualmente, ma mi sono imbattuto in alcuni luoghi comuni che ricorrono in questo festival: autobus, impiccati, capelli, incidenti d'auto, cellulari, duri cortei, sbirri pasticcioni, karaoke... e su tutto i finali aperti, segno di arretramento autoriale di fronte alla responsabilità di concludere in qualche modo il racconto. Potrebbe essere un segno di accettazione della indipendenza del testo, ma forse è solo indice di frastornamento a fronte della dittatura degli oggetti, quegli stessi così ricorrenti e veri enti di globalizzazione.

 

Torino Film Festival - 2003

Scendendo dalle corse urbane di Monteiro, alcuni corti ci caricano su pullman sgradevolmente "bosniaci", fino a ritrovarci in un lungo tunnel - che almeno si apre su una luce di uscita, che sarà quella voluta dal Takeshi giocherellone vendicativo, mentre il tunnel di Sal-in-eui-choo-eok di Joon-Ho Bong è senza uscita per gli occhi dell'ispettore, che si ribadisce più volte non possono fallire, ma hanno sbagliato sempre - sull'autobus vengono narcotizzati i ragazzi portati sull'isola dei morti di Bato tu Rowaiaru, in cui Fukasaku ricama attorno al concetto secondo il quale è "difficile fidarsi completamente di qualcun altro"; dapprima lungamente introduce la materia e lo fa senza scoprire altro che azione e legami tra i partecipanti e poi si diverte a aggiungere senso alla "semplice" idea genialmente interpretata da Takeshi Kitano (da urlo la spiegazione dal "vivo" di come si dovrà procedere e gli interventi via megafono a cadenze di 6 ore l'uno dall'altro per dare conto dello stillicidio di omicidi tra "concorrenti") e dai 42 ragazzi non professionisti e qui si trascorre dal giovane rivoluzionario che vuole applicare la tecnica per rovesciare il sistema e non solo salvarsi all'individualista utopista che riesce a salvare molti e viene ucciso dalla sua amata (degno del Tasso); dal gineceo nel faro che si autoelimina per una semplie incomprensione al riconoscimento del sorriso enigmatico dell'amata che ha finto di voler tradire per rendere facile il compito di immolarla.


Alcuni ragazzi giungono al punto di impiccarsi insieme, istigati da una compagna determinata a sopravvivere in questo gioco al massacro, che si è voluto assimilare a un videogame - forse fuorviati dalla splendida presentazione affidata a una sorta di Lara - e che è invece un'apertura di credito a un'altra generazione di cui i vecchi hanno paura in quasi tutti i film nipponici degli ultimi anni, molti dei quali sono collocati in un'ambiente scolastico. Se il lavoro di Fukasaku è metafora della società, che trova in questo microcosmo tutti i suoi meccanismi estremizzati, Takashi Shimizu in Ju-on: the Grudge 2 riporta tutto al livello di televisione, sia il plot che il livello narrativo. Con le ovvie conseguenze di resa popolare dell'intreccio, ma senza i guizzi mefistofelici di Lynch, edulcorati piuttosto in un - forse non voluto - ridicolo quando i rintocchi dei due amanti impiccati oscillanti, che sbattono l'uno contro l'altro e creano quei tonfi che la sera prima li terrorizzavano appesi a lunghe trecce di capelli. La spiegazione "tirata per i capelli" - è il caso di dirlo - è data dalle parrucche della truccatrice sensitiva: ossessione tricologica comune a quella per gli altri capelli velati di Aida nel film iraniano di Parviz Shahbazi, oppure nello scombinamento organizzato di Ji-Goo-Ruel-Ji-Kyeo-Ra!, dove i capelli sarebbero antenne per alieni infiltrati, come aveva intuito lo squilibrato alienologo, che diventa un utile chiavistello per una cantina di follie, citazioni da Blade Runner, torture cinematografiche, ben diverse da quelle khmer e scoppietante finale di forti colori, parodistiche citazioni da 2001.

Le soluzioni di sceneggiatura sono talvolta sorprendenti per giustapporre sempre diverse scorribande nei generi, sovrapponendo stereotipi ed efferratezze; i personaggi, soprattutto le figure dei poliziotti sono divertenti e rigorosamente mantenuti nei termini macchiettistici che il film richiede, a parte l'investigatore privatoa cui si conferisce un ulteriore spesore citazionista, ma scardinato dalla pescheria in cui agisce, certo che il ghigno triste è una maschera cinematograficamente universale.
Ancora diversi gli scontri tra poliziotti di città e poliziotti di campagna nel coreano Sal-in-eui-choo-eok (Memorie di un omicidio). Completa perfettamente la serie delle impiccagioni quel racconto ad orologeria, calcolato in ogni sequenza, calibrato in tutte le scene che vengono riprese da più angolazioni sempre, cadenzate da tempi omologhi come un ticchettio di orologio calibrato da Rivette in Histoire de Marie et Julien. In questo caso la forca oscilla duplicata in tempi e forse universi diversi, dove il metafisico, l'esoterico che, nonostante Monteiro, tenta di fare capolino come avviene spesso in questa edizione del festival: nel film iraniano si potrebbe adombrare una interpretazione del finale, ritenendo che i due ragazzi ascendano al cielo su quella stradina di montagna dopo aver chiesto informazioni sul propprio stesso incidente, o che quelli in fondo al lago siano alter ego che li affrancano nella loro fuga dalle ricerche.

La protagonista puerpera del mostro di Takashi - peraltro improbabile omino azzurrognolo che si trasforma in femminile rancore con giunture anchilosate quando deve colpire - è attrice dell'horror (Body double di De Palma?) e questo consente il passaggio di montaggio più interessante del film: un raccordo sull'edificio teatro dell'omicidio iniziale - altro luogo comune del genere horror nipponico, dove sono le case a generare l'elemento destabilizzante - con il set che si trova ripetuto nell'inseguimento dei molti personaggi coinvolti.

Questo tipo di passaggio risulta molto evidente e forzato nel dipanarsi della vicenda, al punto che lo spettatore rimane così coinvolto da indurci a inaugurare una forma che si ispira a questi escamotage per riportare impressioni dal festival, dallo stordimento da pellicole, nelle quali sembra di entrare, perdersi e uscire in altre. La protagonista del film giapponese dunque è vittima di un'incidente d'auto che ritroviamo alla base di Nafas-e ameegh di Parviz Shahbazi, che comincia proletticamente su corpi fluttuanti in un bacino d'acqua, quegli stessi che ad ogni sequenza ricompaiono come i pesci dei Monty Python a cercare di convincerci dell'ineluttabilità del fato in attesa per quei ragazzi così stranamente iraniani, quei bellissimi lineamenti di Aida, che parla a macchinetta quando smette le cuffiette, o l'anoressia di Karman, disincantato e poetico ragazzo disperato dentro, che si appropria degli oggetti di cui ha bisogno in quel momento: cellulari (con un uso smodato del passaggio di questi aggeggi di mano in mano, che diventa persino simbolico: "La batteria si sta scaricando, proprio come me"), teloni di auto... Anche in questo caso si nota un raccordo di montaggio che traspone il plot dall'iniziale collocazione nel lago a quella più adatta all'ambiente giovanile, una piscina in cui la mdp si tuffa come nella storia dei due amici, che scelgono di scendere nell'inferno dei dormitori e dei mezzucci di sopravvivenza in totale rifiuto di regole e modi di vita borghesi. Stupisce, a causa dei film di Kiarostami, che non ci sia una pulsione puramente artistica da sviscerare metalinguisticamente o l'inseguimento di un evento passato da ripercorrere a distanza di tempo. Qui non esistono prospettive, tutte annullate dall'incidente, ma già in precedenza tutte limitate al rifiuto maudit di qualsiasi scappatoia possa venire offerta.
E anche qui non manca la sequenza sul bus, dove Mansour e Rakman offrono la loro prima prova di chiamarsi fuori dalle maniere e costumanze della società: l'ingenua strafottenza di fumare una sigaretta senza degnare di risposta le rimostranze dei passeggeri è tanto scontata per noi quanto straniante in un contesto che la maniera iraniana ha sempre tenuto a emendare dai suoi celebrati film.
Ma l'oggetto fondamentale del film è la Kia, l'auto che finirà nella pittoresca cornice di monti attorno al lago, e frutto di un esproprio venuto al momento in cui se ne sente l'esigenza (presa a una figlia di un giudice con naso rifatto), è centrale in molti episodi che costellano la sgangherata ribellione dei tre dropout poco convincente per una percezione occidentale che di quelle insofferenze verso il "sistema" ha infiniti esempi da portare, come anche le molte prolessi che diventano stucchevole nuova maniera, se non fossero in parte disattese dal finale aperto.
Stessa forma di utilitaria che occupa la campagna malese fa la spola tra i due mondi, segnando le differenze tra città e provincia - scelta dopo che di nuovo un bus si è messo di traverso, essendo stato teatro di un omicidio e quindi per bisogno di sicurezza i due anziani ricchi protagonisti, versati al riso e allo scherzetto, optano per la campagna - al centro dell'indecoroso Rabun di Yasmin Ahmad: incentrato sul gioco della Koba, da cui prende le mosse, in base al quale si è tenuti a colpire un barattolo e svuotarne il contenuto. In realtà si fa largo uso di tutti i mezzi di trasporto, a cominciare da una bici da cui si prendono le mosse del film.

continua...

adriano boano

se invece poi volete vedere un film come si deve: Vai e Vem di Joao Cesar Monteiro