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Torino Film Festival 2000Lampisterie sinaptiche
Parte 02

La Vita, istruzioni per l'uso. Perec però scrisse Espèces d'espaces prima, nel 1974, l'anno precedente a Det gode og det onde realizzato da Jørgen Leth, una sorta di programmatico approfondimento per cogliere gli atti che l'umanità agisce nella quotidianità relandoli ai pensieri delle persone, fino ad accorgersi che le parole sono in grado di spiegare tutto e il suo contrario, spingendosi a cercare al di là: scoprendo il silenzio. Un film indicato da Lars Von Trier, fatto di un decalogo giocato intorno proprio a pensiero e sue applicazioni, a sentimento e sue deviazioni. Discorsi che risalgono a venticinque anni fa, presentati attraverso serie infinite di ripetizioni sempre uguali e costantemente diversi. Un film vecchio sotto ogni punto di vista e che non potrebbe nascondere i suoi anni nemmeno se tornassero di moda quelle camicie e quei pantaloni; è un altro aspetto della nostalgia che ammantava i film militanti, questa coglie nei gangli più vicini alla sfera di quello che si leggeva allora, delle sofferenze che ci si infliggeva, assistendo a film programmaticamente noiosi, eppure bellissimi nella ricerca della scansione degli atti dal pensiero all'azione. Come questo cult danese del 1975 la cui prorompente bellezza sta nascosta paradossalmente nei ritmi che servono a dilatare la serie, seguendo pedissequamente le serie di Perec. Rigorosamente producendo una altrettanto seriale sfilza di corpi, sculture scolpite nella luce b/n: nudi ammantati da un bianco fulgido che gioca sinuoso sul nero dei fianchi vellutati di signorine, alternati a muscoli portentosi di maschi culturisti, sottolineati dai contrasti di luce, ma anche tartarughe, quarti morti di bue, scarpe. La reificazione; la replicanza del Blade Runner giapponese di I.K.U. Di nuovo il festival ci vuole suggerire di considerare il corpo come centro del rapporto mortale che intercorre tra cinema e vita, sbilanciato sul versante della morte: e non a caso è già contenuta tutta la poetica di Helmut Newton in quelle quattro donne disposte strategicamente. Come quelle figure femminili ormai virtualizzate dai colori sintetici di I.K.U., peep show sui toni del rosso che incorniciano serie di kamasutra, ripetizioni infinite di atti sessuali rigorosamente privi del loro sfogo, perché il cinema non è in grado di soddisfare, mantenendo sempre sulla soglia dell'orgasmo o cancellando in seguito a virus in odore di atmosfera morbosa alla Ferrara (il virus si chiama "Tokyo Rose").

Non voglio vedere, scegliere, decidere, dice Leth, rinunciando alla fine alla ricerca e anche a contrapporsi (in questo Von Trier produce cinema di destra, rinunciatario finché non arriva Björk a sconvolgerlo), cosa che invece Armando Ceste non ammette come Pietro Perotti e Pier Milanese, due video da diffondere in tutte le scuole finché potremo fare didattica faziosa e antifascista (ma i due termini sono tautologici): quello sulla lotta dei 35 giorni alla fiat 1980 servirà alle giovani generazioni, destinate dalla loro nascita non nobile a soffrire in fabbrica dopo aver frequentato le scuole aziendali, per imparare a non fidarsi delle promesse, l'altro, quello che ci inchioda alle nostre responsabilità di razzisti, serve a impedire i cori da stadio, che diventano canizza di donne con cervello azzerato dall'imbonimento giornalistico, reclusione di innocenti in un lager, persecuzione di Abdellah e i suoi fratelli. L'allusione al capolavoro di Visconti non deve lasciar perplessi: il parallelo con i famigerati nostri emigranti (i mamelici Fratelli d'Italia tanto cari a Ciampi), sulle cui rimesse si fondò parte del boom economico e ai quali la sinistra ha voluto regalare il voto, quei famosi italiani lontani su cui spesso i fasci piangono commossi, si trovarono nelle stesse situazioni di questi poveri maghrebini che ai Murazzi vengono picchiati, vilipesi, ammanettati e scaraventati nel fiume. Annegati con l'intenzione di uccidere. Anche in questo caso basterebbero le immagini senza la recitazione di Beppe Rosso, che confrontato con la passione intensa degli stralci in arabo risulta ridimensionato enormemente. Però il rigore della ricerca fatta di articoli giornalistici e citazione degli atti giudiziari non viene inficiato dal piglio alla Santoro ("Andiamo a vedere") che defluisce dagli atteggiamenti inquisitori. Inchieste che rischierebbero di riportare al livello freddo e rigoroso del danese la percezione della realtà, laddove invece si tratta di sangue e forti pressioni emotive, sono ribaltati dagli efficacissimi inserti audio di Freddy Giuliani e Steve Morino (mitici caini dell'etere torinese dai 97,6 di Radioflash), le canzoni dei 99 posse che chiudono dopo aver aperto il video, eccellenti perché poco cattedratiche le analisi di Younis Tawfik e Don Luigi Ciotti, due altri faziosi che animano il video, movimentato anche da inserti estemporanei di recite di ragazzini, ricostruzioni del fatto principale. L'omicidio di un emigrante per ragioni di ignobile razzismo indotto dalle campagne xenofobe dei media. Purtroppo la recitazione e la lunga verbosa tirata di Rosso ad un tavolo di ristorante - ovviamente etnico - inficiano le denuncie tratte dai verbali: "… il delitto privo di movente...lasciar deliberatamente annegare un uomo...", finiscono con il perdere efficacia. O comunque a diluirsi in denunce molto meglio impostate, quali le condizioni di sopravvivenza, le violenze subite, l'atteggiamento di chiusura di persone con spiccato accento meridionale (e che dovrebbero ricordarsi le umiliazioni patite al momento della loro emigrazione, accortamente montata nelle immagini in modo da alternare i documenti attuali a sfocate immagini in bianco e nero che sembrano provenire da secoli fa) che si sommano ai casi di protervia piemontese: riprese con grande efficacia in modo da evidenziare la furia, l'incapacità di confrontarsi dovuta all'accecamento da media nelle interviste davanti al lager di corso Brunelleschi.

Per fortuna di Armando Ceste la dabbenaggine dei civich (vigili urbani nel vernacolo locale) è tale che riescono a farsi riprendere mentre arrestano un venditore armato di menta - e non è gergale per definire qualche stupefacente sostanza - regolarmente importata con tanto di fatture; e questi riescono anche a esercitare il loro rude potere sull'operatore, oscurandolo. E qui si evidenzia la splendida faziosità, l'incredibile capacità sinaptica del regista torinese, che alla manna piovuta dal cielo con le fattezze delle uniformi degli sbirri unisce l'immagine riassuntiva e commentativa. Campeggia in tutto il suo fulgore un manifesto di quelli che ci stanno rovinando il paesaggio con la loro grafica da '48: "Un impegno preciso: città più sicure". Nuovo cinema militante come si diceva nell'editoriale e come ribadisce il graffio della pantera nera Melvin Van Peebles, ultrasettantenne geniale afroamericano che inventa il linguaggio dvd dopo aver riformato l'immagine 70s con gli incanti blaxploitation.

Le Conte du ventre plein lavora sull'immagine in modo accattivante, la scompone con i grandangoli inquietanti e la ricompone nella sua integrità con i trucchi che il dvd consente: splendidi mascherini che aggiungono scherno al dileggio della provincia francese, squallida, maneggiona, pronta alle peggiori nefandezze per mantenere il decoro di un'esistenza che si rivela sempre più perfida. Dance! È l'urlo scritto sui titoli di testa di un funerale che ricorda Entr'acte per un'opera altrettanto innovativa che rimedita l'intero linguaggio cinematografico alla luce del supporto digitale, apparentandosi con l'esperimento glaciale di I.K.U.; però Van Peebles all'opposto è sarcastico, partecipe e infila in momenti opportuni battute raggelanti sull'insulto di certa compiacente politically correctness che usa il razzismo come un arma per i propri disegni, ma fa sfoggio di grande liberalità. L'alternanza di volti molto mobili e stereotipati sulla tipologia francese e di altrettanta mobilità offerta dalla telecamera maneggevolissima che si lancia in vertiginose fughe in avanti a mezzo centimetro dal naso della untuosa padrona e poi proseguire nei meandri strettissimi della baita, senza dover sottolineare la mobilità come i dogmatici, poi ci sollazza inventando un disegno ottenuto con la digitalizzazione in forma di lapis delle riprese, accelerandole pure in modo da restituire la sensazione di seguire il moto dell'animo che produce la discesa a rotta di collo per accogliere un caro amico. L'efficacia del racconto per immagini, mai corrive o inadatte alla situazione, aggiunge forza al messaggio che non si limita a denunciare il razzismo - non è un documentario come quello di Ceste - ma travalica quello stadio e pone a nudo l'ipocrisia e il retrogusto razzista della presunta tolleranza, un tema da sempre nelle corde del regista, che in questo caso gioca benissimo la sua carta coltissima, la sua conoscenza della realtà francese e della storia del cinema e confeziona sui toni di una commedia per equivoci (tipo Indovina chi viene a cena) una trasgressiva forma di cinema militante. Il volto della ingenua trovatella stupito nell'ascoltare la banalità, poi ripetuta più volte nel film ("vivere è mettere un piede dopo l'altro" a condensare una vuotezza di contenuti della tradizione che si vuole pregnante della provincia), nel congedarla pronunciata dalla direttrice dell'istituto, altrettanto pelosa dell'intera comunità - chiusa come nel film di Kassovitz - è preso di peso dalle serve dei film secessionisti e significa lanciare un riferimento forte relativo al suo graduale prendere coscienza: da quel punto zero fino ad arrivare alla ribellione finale, segnata dal rifiuto di rivolgersi alla infingarda padrona con il titolo di "Madam", un'assenza di rispetto intollerabile per chi denuncia così di considerare le persone di colore e i sottoposti delle cose. Una reificazione che in fondo ribalta il processo di partenza del film danese, che probabilmente intendeva scandagliare il reale, prendendo atto della reificazione operata dal linguaggio sulle persone e sui pensieri: il problema del film danese è che non si produce in una critica dell'esistente; Van Peebles non si arrende e crea immagini espressioniste da antologia quando iscrive un enorme mastino nero nella porzione di quadro a destra, enormemente più grosso dello spasimante di Diamantine (splendido nome auto-imposto dalla nera, che già con quel gesto dimostrava di avere in nuge la coscienza) attaccato, mette insieme sia l'analisi che la critica, affidata alla forma, scatenando il riso e lasciando che permanga l'indignazione, fa sue le regole della comica di altri tempi, attraverso la quale si faceva sì che rimanesse qualcosa nelle menti, e quelle immagini forti permesse dal digitale non si dimenticheranno facilmente quanto la morale canzonatoria che chiude questo film come già avveniva in modo più lapidario e meno divertito in Sweet Sweetback Baadassss Song, il suo primo manifesto delle Pantere Nere. Il suo film decretando la fine del cinema, non lo fa attraverso proclami o serializzazioni, decaloghi o documentando la putrefazione delle carni o l'infezione provocata dal sesso sfrenato virtuale ed estremo, aggiunge una proposta di spettacolo che non rinnega un secolo di storia di immagini, non rifiuta di narrare molte storie intrecciate, o di usare la musica per sottolineare i sentimenti della povera fanciulla accolta nell'antro dei mostri in una notte tempestosa tra i latrati dei cani (atavica paura dello schiavo africano), alla quale appare anche un fantasma, non dimentica le accelerazioni di Arancia meccanica per mostrare tutta l'azione offrendoci una vertigine non nauseante come Von Trier, ricorda tutto e lo riforma nella sua completezza, persino i mascherini del cinema muto o i cannocchiali godono di uno statuto nuovo, come se si potesse ricominciare a fare cinema. E a usare le sovrimpressioni come nel cinema francese (omaggio filologico al luogo dell'azione) dei surrealisti: racconti che evocano passati che scorrono in modo narrativo e non come collezioni o cataloghi tipo Greenaway. Ci si diverte moltissimo, come augura ogni anno Steve Della Casa, indovinando il vero intento scardinante di battute come "Non ti posso impedire di lavorare la domenica, se vuoi" e a noi metalmeccanici in sciopero per il contratto proprio in questi giorni in cui sembra che le immagini di vent'anni fa non siano altro che una triste replica della realtà attuale e di vent'anni prima non può che evocare il ghigno dei padroni. E infatti non è un caso che la storia trovi una collocazione alla fine degli anni sessanta (l'allusione a Barnard non è peregrina: colloca in un certo periodo preciso, ma allo stesso tempo non inficia l'universalità del racconto, sardonicamente destrutturato solo con l'illuminazione da tergo sulla coppia buona - dove lei si chiama Blanchette - nel momento in cui si riprende la bambina in un apoteosi di buonismo divertentissimo nella sua falsità spettacolare).

E allora la nostalgia e i corpi desideranti, che ieri avevamo lasciato infitti nell'alienazione del lavoro perduto decenni fa e dell'erotismo rubato in Giappone, risorgono nella seconda giornata del festival nella voglia di ribadire i propri diritti e nel bisogno di mostrare il volto atrocemente ipocrita e feroce di quella che una volta con un termine in disarmo, ma impossibile da sostituire nella sua accezione più negativa, si chiamava la borghesia. Che finirà seppellita sotto le risate dopo la proiezione di Le Conte du ventre plein, avendolo gustato siamo un po' più sicuri che prima o poi avverrà. Per ora accontentiamoci di vedere dischiusa la possibilità di raccontare le storie in quel modo canzonatorio preciso e sempre nuovo e sperimentale, ma popolare come si faceva nei cinema del ghetto che hanno formato l'immaginario di Van Peebles.

Adriano Boano